FOO FIGHTERS  "But here we are"
   (2023 )

“But Here We Are”, nonostante tutto.

Sono tornati i Foo Fighters, una delle più autorevoli espressioni del rock commerciale e da stadio, a quasi trent’anni dal loro debutto discografico e certamente nel momento più difficile di un’intera carriera, dopo la morte del batterista Taylor Hawkins, fra le altre cose migliore amico del frontman Dave Grohl.

L’ex-Nirvana, recentemente, ha vissuto anche la scomparsa della madre, di cui ha ampiamente parlato in un’autobiografia pubblicata di recente. Di tutte queste cose, inevitabilmente, è intriso “But Here We Are”, disco dalla copertina interamente bianca che comprende dieci brani (la cui batteria è stata suonata da Dave Grohl) in grado di certificare, ancora una volta, la capacità di comporre veri e propri inni rock da classifica, stavolta con una scrittura decisamente più emotiva.

In “Rescued” e “Under You” sembrano esserci i Foo Fighters di sempre, e nemmeno le note più nostalgiche di “Hearing Voices” appaiono in grado di scalfire il piglio dei giorni migliori, con l’intensità dei rimandi Nineties a fare da propulsore. La titletrack, che condensa almeno in termini di songwriting molto dell’anima del disco, è in grado di generare le stesse sensazioni: non più quello che, tra il serio e il faceto, veniva chiamato “dad rock”, ma una viscerale e grintosa esibizione di alternative di buona fattura, tra cavalcate elettriche e rabbia prima contenuta e poi esplosa.

“The Glass” si colloca nella comfort zone dei Foos: schemi da ballad in apertura, ritornello più muscolare, secondo una formula già esplorata e spesso vincente, anticipando la tendenza a un lieve alleggerimento dei suoni nella seconda metà del disco: “Nothing at All” arriva con una voce appena filtrata, “Show Me How” propone addirittura un ritornello vagamente dream pop con il duetto fra Dave Grohl e la figlia Violet, “Beyond Me” è un comodo esercizio di pop rock che si fa elettrico nel finale, dopo un’apertura affidata al pianoforte.

“The Teacher” sembra voler tenere fede a quanto ipotizzato da Dave Grohl qualche anno fa in termini di esplorazioni progressive: negli oltre dieci minuti del brano dedicato alla mamma (insegnante, non a caso) sembrano confluire tenerezza e pathos, rabbia e la quiete dell’elaborazione del lutto. “Rest” chiude con un’introduzione acustica e la deflagrazione finale, somigliando a un vero instant classic.

“But Here We Are” è un album vero, spontaneo e ispirato, senza dubbio il disco più riuscito da “Wasting Light”, ma probabilmente uno dei dischi migliori dell’intera discografia, arrivato proprio nel momento in cui non ce lo saremmo più aspettati. (Piergiuseppe Lippolis)