TURANGALILA  "Lazarus taxa"
   (2023 )

Lavoro denso come lava, complesso e sfaccettato, eppure non così impervio quanto gli indizi ed i precedenti suggerirebbero, “Lazarus taxa”, su etichetta Private Room Records, vede il ritorno del quartetto barese Turangalila a due anni di distanza dallo statuario debutto di “Cargo cult”.

Cangiante ed intenso, dell’esordio conserva intatta un’aura di colta sperimentazione, convogliata in composizioni che si muovono con destrezza tra psichedelia, post-rock, schegge math, piccole divagazioni in territori noise, tentazioni avant. Il risultato complessivo è straniante, circondato da un’aura lisergica, imbevuto di suggestioni contemporanee (“Reverie”), incanalato in brani che non necessariamente optano per la deflagrazione, tenendo il climax a lungo nascosto tra le maglie di movimenti in crescendo non lineare (“Ugo”).

Aperto dalla dilatazione shoegaze à la Nothing di “Wow! Signal” e chiuso dalla trasognata aria sfuggente di “Jisei”, strumentale con arpeggio bucolico e vibrante contrappunto del sax, l’album si spinge in direzioni disparate senza mai perdere l’orientamento, concedendo punti di riferimento o sottraendoli a seconda dell’estro del momento, infilandosi in variazioni inattese, spesso indulgendo ad un canto distante che ricorda i DIIV di “Is the is are”, altrove prediligendo cadenze singhiozzanti o evoluzioni contorte, all’improbabile crocevia tra vonneumann e Helmet (“P38”), ma con l’ombra lunga di Waters & soci a stagliarsi nitida sullo sfondo (“Lazarus taxa”).

Emblematica la scelta dei primi due singoli, nessuno dei quali – al pari degli altri episodi – lascia facili appigli o comode scorciatoie: avulsa dall’accessibilità della forma-canzone, “Antonio, Ragazzo Delfino” non rinuncia a ricamare una melodia accessibile, ma la relega in coda, depistando grazie ad uno sviluppo che va a planare addirittura dalle parti dei Radiohead; “To the boy who sought freedom, Goodbye” è una mini-suite aperta da un sinistro recitativo su oscure trame doom, sventrata quindi da trenta secondi di improvvisa accelerazione, infine placata in un’oasi di effimera quiete dagli echi nuovamente pinkfloydiani.

Solido e coeso, spavaldo e ben prodotto, l’album oscilla tra la buia incombenza à la Swans di “A pilot with no eyes” e la veemenza infida di “Neopsy”, squassata dal pulsare violento del basso e da un marasma congesto di dissonanze; sinfonia dei contrasti, non degli eccessi, mostra una scrittura intelligente, sibillina a tratti, foriera di atmosfere sospese che definiscono un linguaggio distintivo dalle sfumature sempre più peculiari. (Manuel Maverna)