SAN LEO  "Aves raras"
   (2023 )

Tra i maggiori esponenti di un milieu, tanto oscuro quanto ineffabile, che lega in linea affatto retta la psichedelia occulta italiana, l’arte concettuale dei vonneumann, l’indole visionaria degli Heroin In Tahiti, suggestioni math, tentazioni post, digressioni avant e pulsioni kraut, i San Leo, duo romagnolo fondato dieci anni orsono da Marco Tabellini e Marco Migani, spaziano in realtà oltre generi, costumi e tendenze, procedendo con incrollabile coerenza nello sviluppo di un linguaggio capace di fondere sonorità stratificate e variegate, aperte ad ogni soluzione.

Quinto album in una prolifica carriera, defilata sì, ma onusta di gloria, “Aves Raras” riparte da dove “Mantracore” si fermava, fedele alla linea sia nella struttura, sia nel lavoro certosino sui suoni, sia infine nella pervicace ricerca di quello stato di trance ipnotica che rappresenta sin dalle origini il tratto distintivo della sigla. Quattro tracce per trentanove minuti – due lunghe mini suite e due brani più brevi – delineano il perimetro, invero assai labile, di questa musica ondivaga, scevra di confini o paletti, in costante movimento/mutamento tra repentine esplosioni (“J!OY”, frenetico turbine elettrico) ed oasi di clamorosa quiete.

Musica fluida, infida, priva di un centro, sposta di continuo il tiro, sottraendo appigli, non concedendo riferimenti scoperti, baloccandosi con intrecci e dinamiche senza svelare il trucco. E’ una discesa nel maelstrom o l’ingresso della selva: dove vadano a parare i venti minuti di “ARIES”, cattedrale di suono che ridefinisce – uccidendola - l’idea stessa di crescendo, non ha nemmeno questa grande importanza, perché l’attenzione è sul cammino, non sulla meta. E’ lo stesso gioco cui indulge “FUTURA 2000”, che per quasi dodici minuti insiste su un pattern ritmico incalzante, gradualmente abbracciato da una melodia che si insinua nel tessuto, salvo polverizzarsi nel finale senza avere trovato compimento.

Pathos incombente, ma rinviato con strategia obliqua, esaltato e sublimato nella conclusiva “AL.AY”, che riecheggia una titanica ouverture in inesorabile lievitare dal nulla verso il nulla: ma non è una ouverture, e non è una chiusura. Forse è solo un maestoso trompe-l’oreille, forse è il nulla stesso, in imprevedibile divenire. (Manuel Maverna)