GIANMARIA SIMON  "Bagatelle"
   (2024 )

Anche se mi piacerebbe – e molto – che lo fosse, diciamocela pure tutta: questo non è un disco per giovani.

“Bagatelle” è il terzo album in dieci anni per Gianmaria Simon, delizioso cantastorie anarchico più vicino ai cinquanta che ai quaranta, nato e cresciuto nell’enclave borderline di Sarzana, un po’ Liguria e un po’ Toscana, o forse né l’una né l’altra. Scheggia impazzita, artista defilato che ama esserlo, penna che a seconda del momento po’ esse fero e po’ esse piuma, disegna a tinte forti un folk girovago e movimentato che reca con sé suoni, ritmi, sentori e suggestioni di un qualche altrove che dirvi non so.

Ricco fino all’opulenza, “Bagatelle” è strabordante di immagini e personaggi, di storie, storielle e storiacce, in cui Simon si mostra fieramente verboso, ostentatamente retrò nella scrittura, arroccato nella turris eburnea di un suo raccolto, personalissimo world apart, che ben poco ha da spartire coi tempi moderni e coi gusti imperanti.

Usa ed abusa di lingue varie, mischia generi e stili, gigioneggia - sagace e pungente - in un crooning bislacco e andante che ricorda Peppe Voltarelli e Gianmaria Testa, padroneggiando forma e sostanza con la nonchalance di chi ne ha viste tante, ma riesce comunque a stupirsi ancora.

In tutto ciò ed in altri magheggi assortiti, allestiti con la classe e la furbizia del mestierante di lungo corso, risiede la sontuosa bellezza d’antan di un lavoro impreziosito dal taglio amabilmente demodé, fruttuosa amalgama di sentimento e divertissement, cornucopia di idee e creatività a cavallo tra autorialità e sfoggio di forbita eloquenza.

Abile a maneggiare qualsiasi materia, dall’irresistibile leggerezza di “La luna quando sale” allo swing malizioso di “Luisa”, dall’incalzante foga – quasi un De André alticcio - di “Stavo conversando con Verlaine” al rebetiko di “Mi capiti in bocca”, fino allo slow commovente di “Dormi negli occhi miei”, passando per l’inglese di “Barney”, lo spagnolo de “El chuico y la damajuana”, il francese della conclusiva “Chanson d’automne” (su testo di Verlaine), Simon tratteggia un vivace microcosmo rigonfio di palpitante umanità, specchio - talvolta fedele, altrove visionario - di una quotidianità intrisa di sporca poesia. (Manuel Maverna)