RUN RONIE RUN  "Baise le monde"
   (2024 )

Molto banalmente, e per dirla subito tutta, con superficialità: questo disco è bellissimo.

Altrettanto banalmente, con terminologia così agée che potrebbe figurare tra le parole desuete di Giada Trebeschi, e se posso permettermi una definizione arcaica che renda l’idea di cosa stia racchiuso in questo piccolo scrigno delle meraviglie: è un disco indie.

Molto anni Novanta come scrittura e struttura, ma con un suono più attuale. Il mix perfetto, prodotto del solito macchinario chitarra-basso-batteria dalle infinite possibilità, oggigiorno relegato un po’ in soffitta a vantaggio di diavolerie assortite ed imbastardimenti sperimentali. La resistenza al nuovo è splendidamente testimoniata nelle dodici tracce di questo defilato prodigio, opera dei Run Ronie Run, tre francesi di Le Mans, al terzo album in poco più di un decennio, fieri alfieri di una musica mossa e nervosetta, sfacciata e ruvida sì, ma non priva di eleganza, disinteressata a mode varie o tendenze imperanti, un misto di slackness & divertissement e del loro esatto contrario.

“Baise Le Monde” (che tradotto è un inequivocabile “Fuck the world”) esce su etichetta M&O a quasi otto anni da “Sordid Cabaret”, a undici dall’esordio di “Last Breath”, e ripresenta in forma smagliante Gilles Laurent (chitarra), Antonie Monfleur (batteria) e soprattutto Nostra Signora del Circo, la vestale Bambirock, trapezista per mestiere, passione e vocazione, qui in veste di bassista e cantante, a tempo affatto perso.

Tra una fortissima eco dei Bodega (“Jumping Into The Pool”, “Monster#2”), qualche accenno di figure à la Stereolab, con suggestioni kraut sublimate dalla pulsione del basso e dall’andatura metronomica, inflessioni a tratti non così lontane dai Yo La Tengo (la coda di “Divergence” piacerebbe a Ira Kaplan, ne sono certo), piccole tentazioni noisy (“Remain Silent”) ed una dichiarazione d’amore tout court all’immarcescibile verbo post-punk, l’album fila via dritto che è un piacere, sostenuto da una ritmica incalzante, da ganci furbetti, da ritornelloni inaspettati e da inserti cattivelli, che a quelli della mia età potrebbero ricordare qualcosa a metà strada fra Pixies e Breeders.

Spesso, disseminato ad arte, un quid di goliardico fa capolino in trame squadrate e lineari, ideale supporto per brani accattivanti, concisi, efficaci, mai dispersivi né cervellotici (“Let’s play”, con coretto finale nonsense ex abrupto). Rare concessioni ad atmosfere più intime (“To Carry To Kill”) ed altrettanto rade puntate in territori estranei alla comfort zone di riferimento (“Fight Against Fast”) non mutano il clima generale, che rimane orientato ad un sound compatto, veemente, vorticoso. In coda, gli otto minuti e mezzo al rallentatore di “Will you wake up…”, bruscamente scollati dal contesto, con un lungo recitato in francese al quale fa da contraltare l’inglese suadente e raccolto di Bambirock, suggellano sibillini un lavoro solido e denso, ricco e creativo, profondamente sentito e vivido, sicuro di sé fino alla spavalderia. (Manuel Maverna)