WHISPERING SONS  "The great calm"
   (2024 )

La piccola/grande soddisfazione – personale, ma non solo - di avere assistito alla crescita ed alla successiva, progressiva affermazione dei Whispering Sons quando ancora erano soltanto un nome semisconosciuto tra i tanti del folto sottobosco post-punk europeo, è a suo modo impagabile.

“Image”, anno del Signore 2018, fu da noi eletto album dell’anno, mentre ben pochi si erano accorti di questa band belga, fronteggiata dall’androgina Fenne Kuppens e dedita ad una rilettura estremamente peculiare del suddetto verbo, declinato in brani bui come tenebra, plumbei, opprimenti, un rimbombare di bassi cupi, di ritmi spezzati, di liriche esistenzialiste, canzoni memori dell’oscurità dei tempi andati, sacrificate su un altare improvvisato da una sacerdotessa bionda e pallida, spettrale e allucinata, musa statuaria dalla voce profonda, attorniata e supportata dai suoi quattro fedeli ministri del culto.

Tre anni più tardi, “Several Others”, atto secondo, muoveva nella stessa direzione, forzando ancora di più la mano, ammesso che fosse possibile, sulla truce tetraggine dei testi, cupi affreschi mortiferi squarciati da un canto che era al contempo caldo e raggelante, suadente sì, ma così inquietante da suscitare più di un brivido e cattivi pensieri.

Ad altri tre anni di distanza, arrivano oggi le dodici tracce dell’autoprodotto “The Great Calm” a riprendere un discorso reso più esplicito e disallineato, un salto mortale senza rete con la band nuovamente in stato di grazia, ma capace di spostare altrove il baricentro di questa musica fosca e malaticcia, preda sì di mille demoni e foriera di nuovi incubi, eppure mai come ora così fluida, mobile, ri-animata, ricostruita in fogge che richiamano fattezze note e fasti trascorsi, riedificata sulle stesse fondamenta in veste scintillante ed inattesa. La ricerca di formule inedite per sfuggire alla trappola della sterile ripetitività di maniera nella quale rischiare di cadere, si traduce in una nutrita serie di furbi accorgimenti, abili ed efficaci, provvidenziali espedienti che danno vita ad una incarnazione rivitalizzata di quello spirito noir da cui il progetto prese le mosse due lustri orsono.

Innanzitutto, i brani suonano generalmente più facili: sono melodiosi, più accessibili, in parte edulcorati rispetto all’asprezza primigenia, non così impenetrabili né respingenti. Inoltre: il canto di Fenne, monocorde nei precedenti lavori, si piega a variazioni rimaste sin qui inespresse, di frequente impennandosi (“Walking, Flying”, a passo motorik), mutando registro ben oltre la cavernosa, distintiva eco baritonale. E poi: strutturalmente, la scrittura dei brani presenta ora movimenti che superano con decisione la squadrata staticità degli esordi, nel nome di un intervento consistente sui suoni, svecchiati da un lavoro che rifocalizza le chitarre, ripulite dalla nostalgica – deliziosa, in verità - aura Eighties che tutto ammantava. In sostanza: come non snaturarsi, guardando avanti.

Sporadiche le vestigia del passato: se ne rinvengono nell’opener “Standstill” e nel battito incalzante di “Dragging”, accoppiata che sembra perdersi all’inizio delle sessions di “Image”, ma da lì il quadro varia, il piano si evolve. Per la prima volta, si affacciano sulla ribalta pezzi lenti, introspettivi, morbidi pur nella loro introversione: il languore di “Cold City”, la toccante aria per pianoforte di “Still, Disappearing”, la cadenza sintetica di “Balm (After Violence)”, la dolcezza rarefatta di “Oceanic” suonano addirittura toccanti, lontane dall’abituale inquietudine, di cui rimangono figlie a tutti gli effetti, ma dalla quale prendono le distanze, sulle ali di una triste pacificazione. Darsi nuove possibilità è l’imperativo, sublimato in una “Something Good” che plana in zona Dry Cleaning, nel sorprendente piglio di “The Talker” (quasi un simil-country da line dance), nella fortissima eco à la Bauhaus di “Loose Ends”, e soprattutto nella snervante “Poor Girl”, sventrata da continui accumuli e rilasci di tensione.

Sul rallentamento afflitto di “Try Me Again”, chiusura in bilico su molti interrogativi, rimane sospesa a mezzaria una sensazione di drammatico abbandono, un sentore di pacata rassegnazione che tutto inghiotte, in attesa di qualcosa che forse non verrà.

I’m more of who I am/and less of who I wanted to be...

Se avete amato i vecchi Whispering Sons, siete avvisati. Siate aperti e disponibili, il nuovo corso avanza. (Manuel Maverna)