DRIVE MOYA  "The great end"
   (2024 )

Confiteor: al primo ascolto, questo disco non mi aveva particolarmente colpito. Anche se.

Anche se, lì da qualche parte, in sottofondo, ben celati nei recessi di brani falsamente lineari e convenzionali, con più di un debito verso gli anni Novanta, si agitava qualcosa di intrigante.

Non so: certe linee di basso, alcuni crescendo non banali, un tot di saturazioni non scontate, qualche chorus mascherato, un ritmo che non ti aspetti, un’evoluzione storta, suoni cangianti. Vero, l’impressione era quella: musica ben fatta, già sentita, che però richiedeva un maggiore impegno. Lo meritava.

Seconda passata: cambia tutto, mi do ragione. Psichedelia leggera, imbastardita con tanto – ma tanto – indie-as-we-knew-it, musica fluttuante e aperta, mediamente malinconica e piacevolmente mossa, un milieu che sa di DIIV, di Sunny Day Real Estate, di Nothing, dei Jesus & Mary Chain più malleabili, ma che flirta talvolta con tentazioni Alvvays (“The Sun”), atmosfere à la Hum, accenti che ricordano i Dead Gaze, ritmo e sfuggente tristezza, feedback e melodia come l’antica - sempre valida - ricetta prevede.

Partiamo dalla fine, dal brano di chiusura, quegli otto minuti e quarantadue secondi di “Ante Valdemar Roos”, nei quali succede di tutto senza che apparentemente succeda niente. Fino al minuto 3’51”, è una canzone semplice che resta nel suo perimetro, ha un chorus ben nascosto, un’andatura sostenuta, belle movenze; da lì, si materializza una coda che occupa oltre metà del pezzo e che trasforma l’atmosfera da docile ad inquieta, da accomodante a sospesa, con annesso cambio di tonalità e variazioni minacciose, una via di mezzo tra le elucubrazioni cerebrali dei Polvo e le code posticce dei primi Modest Mouse, con la chitarra che disegna figure astratte, prima di mutare in distorsione incessante, un incastro più che una sovrapposizione. Affascinante e disturbante.

Ripartiamo dall’inizio, dunque.

Originari di Vienna, formati da Christian Jurasovich, Simon Lee e Philip Pfleger, i Drive Moya si ripresentano a cinque anni dal debutto con le nove tracce di “The Great End”, su label Noise Appeal Records, cinquanta minuti in bilico tra passate suggestioni e sonorità mirabilmente adattate ai tempi. Di rimembranze assortite ed echi sparsi abbiamo detto, ma ciò che colpisce – addirittura folgora, a tratti – è l’apparente lievità con la quale il trio maneggia e plasma ad arte il prezioso materiale su cui lavora. A stagliarsi con prepotenza sullo sfondo di queste composizioni, che svelano solo gradualmente i loro piccoli trucchi ed una suadente malìa, l’ombra lunga degli Smashing Pumpkins di “Machina” (“Your Heart Will Never Burst”, opener di gran classe), unita ad una scrittura capace di introdurre inattese variazioni al tema mentre tesse pathos e crea dal nulla, sorniona ma incisiva. Accade in “This Grey Heart”, con esordio retrò - quasi un terzinato d’antan – e sviluppo à la Silversun Pickups; in “Unbound”, divisa fra sentori grunge e lungo epilogo psych; in “Lonesome Heart”, ballata soave e tenue, portata a spasso dalla profondità del basso e da un’ampiezza delle armonie che richiama certe carezzevoli trame dei Cure.

Sono solo alcuni esempi fra i molti possibili per descrivere un lavoro stratificato e complesso, aspro ma gentile, morbido e graffiante, ricco fino all’opulenza di spunti, cornucopia di idee che dispiega la propria sibillina bellezza solo dopo attenti e ripetuti ascolti. (Manuel Maverna)