BILLIONS OF COMRADES  "Trotop"
   (2024 )

In questo piccolo sorprendente disco di sette canzoni e ventotto minuti, niente gira come dovrebbe.

Tutto è storto, sovraesposto, eccessivo, fuori posto e fuori moda, un pastiche dada che fa a pezzi l’idea canonica di canzone mentre si balocca col suo cadavere, ridendone.

Autori del misfatto, i Billions Of Comrades, quartetto belga originario della cittadina di Tubize, venticinque chilometri da Bruxelles, gente che da due lustri abbondanti gira il mondo dispensando la propria inarginabile follia, già condensata nei due album “Grain” (2013) e “Rondate” (2016) ed oggi al suo acme con la bruciante urgenza di “Trotop”, esaltante rentrée su etichetta Rockerill Records/Black Basset Records.

Totalmente indefinibili, ma immaginate – solo in alcuni frangenti, ci mancherebbe! - una via di mezzo tra i Cure di “Pornography” (“Tetons”) e i La Dispute (“Our Hours”, con featuring di Mike Watt), con la verve dance dei RHCP (“Unità”, cantata in italiano), una fusion balorda che sta - solo in alcuni frangenti, ci mancherebbe! - fra il post-qualcosa e il nulla, una musica che sappia trasformarsi da falsamente accomodante a malevola ed aggressiva nello spazio di poche battute (“Scab Aalo Pam”), pastiche frenetico che flirta con echi dub (“1480”) o che colpisce alla giugulare, giocando di volta in volta a deflagrare o ad implodere su sé stesso (“Boomgang”), una sarabanda di idee e suoni figli del caos, padri di chissà quali e quante possibili evoluzioni.

Musica da ballo sì, in fondo, ma sghemba, in continuo movimento ed in costante divenire, lanciata alla deriva verso un grande punto di domanda, vittima e carnefice di sé stessa, schiava e padrona di un approccio urgente ed istintivo, eppure ragionato come in un’ingannevole partitura math.

Altrove, sembra invece di trovarsi al cospetto di un improbabile ibrido tra istanze lontanissime, i Talking Heads sotto acidi che incontrano la Mano Negra, un bailamme di tribalismi scomposti, elettricità dispettosa, rumori assortiti, dissonanze, divagazioni jazzy, urla parossistiche, avanguardia e Black Midi, Zappa e nevrosi, il tutto sublimato nel trionfo dei sei minuti ipercinetici in spagnolo di “Cabra”, che chiudono l’album in bilico sull’ennesima variazione inconclusa ad un tema che forse nemmeno esiste.

Quale sia l’intento da cui muovono e a cui tendono, è a volte un rebus: amano confondere e mischiare le carte, un po’ burloni, un po’ cattivelli, navigati istrioni che attraggono e respingono, divertono e spaventano, in un clima perennemente in bilico tra festa e dramma.

Alla fine, meglio applaudire, che non si sa mai. (Manuel Maverna)