RICCARDO TESI & CLAUDIO CARBONI  "Un ballo liscio vol.2"
   (2024 )

Datemi retta: concedetevi una pausa, vi farà bene.

Mettete da parte il logorio della vita moderna, e prendetevi cinquantaquattro minuti nei quali lasciar perdere tutto, ma proprio tutto: la bolletta del gas, le brutte notizie alla tv, le pessime notizie alla tv, i problemi dei figli, del coniuge, la frizione che stacca un po’ troppo bassa, la pioggia, la siccità, l’inflazione, il mal di testa, un gol sbagliato, le elezioni, i fiori da bagnare, i colleghi insopportabili, il prezzo della benzina, il riscaldamento globale, il menu per stasera.

Bisogna scendere a patti con sé stessi, n’est-ce pas: nessuna preclusione, listen without prejudice, diceva quel tale. Senza accelerare, lasciandosi un po’ andare, accennando qualche sgraziato, goffo passo di danza, anche se si è rigidi come un traliccio della luce. Che tutto scorra, almeno per lo spazio di un disco, fatto di suggestioni d’antan e di un tempo che non c’è più, un eden di ricordi lontani ma nitidi, di racconti tramandati e di memorie dolci, di gente che è passata e se n’è andata, ognuno col suo viaggio, ognuno diverso.

Ministri ed officianti di un culto pagano che meriterebbe più adepti dei tanti già devoti, sono l’organettista Riccardo Tesi ed il sassofonista Claudio Carboni, rispettivamente classe 1956 e 1966, due vite intrise di musica al punto da divenirne inscindibili, apprezzati compositori, strumentisti e molto altro, qui intenti a (ri)maneggiare temi senza età in uno sfavillante ed adorabile “Un Ballo Liscio vol.2” (per la cronaca: “Un Ballo Liscio”, accreditato al solo Tesi, con Carboni già presente, risale al 1995), su etichetta Egea Records.

Rinomati colleghi provenienti dai folti ranghi di questo piccolo mondo antico forniscono imprescindibile e prezioso supporto: insieme a Tesi e Carboni, Nico Gori (clarinetto), Maurizio Geri (chitarra e voce), Roberto Bartoli (contrabbasso), Massimo Tagliata (pianoforte e fisarmonica) e Gianluca Nanni (batteria e percussioni) costituiscono l’ossatura portante del progetto, al quale si aggiungono Anton Berovski (violino), Sonia Peana (violino), Nico Ciricugno (viola) e Piero Salvatori (violoncello), ossia il quartetto d’archi Alborada, ed alcuni ospiti d’eccezione.

In primis, c’è la voce di Tosca a dare linfa e nuovo splendore ad una “Romagna mia” riletta con la classe, il garbo e l’eleganza che i classici meritano, perché – parliamoci chiaro – “Romagna mia” (anno di grazia 1954) non è soltanto sinonimo di balera e notti estive in riviera: è sì coralità festosa, ma è soprattutto un pezzetto di storia, memoria collettiva da preservare, mattoncino insostituibile nel grande muro della cultura popolare. Ed è ancora Tosca a nobilitare il tango antico di “Cielo azzurro” (“Blauer himmel” del tedesco Josef Rixner, 1936) con un omaggio carezzevole e suadente; sono Paolo Fresu e Francesco Savoretti a prestare tromba e percussioni alla rivisitazione della celeberrima “Laguna addormentata” (“By the sleepy lagoon” di Eric Coates, 1930), qui proposta in una rilettura che scivola lieve e morbida verso lidi jazz; è infine l’ocarina di Fabio Galliani ad arricchire di vibranti sfumature l’altrettanto noto “Valzer di mezzanotte” (“Midnight waltz” di Frank Amodio, 1937), essenziale e toccante nella sua raccolta intimità.

Nel mezzo, polche, mazurche, quadriglie in purezza, ma anche molto altro: e allora vai col liscio, coppie di anziani (non solo, ed è un bene!) che ballano vecchi valzer viennesi, musica da ballo che conserva intatta la propria anima, ma che viene sublimata ed innalzata a qualcosa di più di un movimento in pista; si fa linguaggio universale, espressione completa di un’arte varia che supera cliché, scavalca confini e remiscela generi, recuperando e rivisitando etno-folk e melodie immortali – nostrane e non - in veste sì contemporanea, ma incrollabilmente fedele alla linea.

Calate in un’atmosfera amabilmente desueta, per ciò stesso suggestiva e avvolgente, si prendono la scena, in ordine sparso, il valzer musette per fisarmonica di “Chimere” dell’indimenticato Carlo Venturi, l’inconfondibile paso doble di “España cañí” (Pascual Marquina Narro, 1923), la canta romagnola “A gramadora” (musica di Cesare Martuzzi su testo di Aldo Spallicci, 1910), gli scherzi briosi di Germano Montefiori (“Il singhiozzo”, “Primavera”, “Federico”), il mesto valzer in minore “Autunno” (1940 circa) di Mauro Lenzi, maestro elementare originario di Lustrola nell’appennino bolognese, il “Valzer Numero 1” (1887: sic!) di Carlo Brighi, nume tutelare e padre fondatore del liscio as we know it, il finale sbarazzino di “Quadriglia 2”, a firma dei padroni di casa Tesi e Carboni, che chiude il cerchio e riporta tutto a casa su una irresistibile aria di puro divertissement.

E poi. Poi c’è “Verde luna” (“Green moon” di Vicente Gómez, 1941), a ritmo di beguine, triste come l’amore perduto di cui canta. E’ una tristezza benefica, di quelle in cui ami crogiolarti e cullarti, mentre col pensiero navighi tra ciò che è stato e ciò che sarà, nella bolla che preferisci, nell’angolo prediletto dove i tuoi sentimenti si rifugiano, al riparo dalle tempeste. L’ho riascoltata una dozzina di volte, ricordando quando certe domeniche pomeriggio accompagnavo in auto mia zia Laura, ultraottantenne e affaticata, ma ancora appassionata e assetata di vita, al circolo Mozart, dove amava trascorrere qualche ora ballando. La lasciavo lì, poi tornavo a prenderla, e dietro la naturale stanchezza le leggevo negli occhi uno sguardo felice e rasserenato. “Ho ballato quella canzone, sapessi com’era bella”, mi raccontava sulla strada del ritorno. Quella canzone era “Verde luna”.

Cinquantaquattro minuti sono passati, torno ad ascoltare gli Slayer, ma è stato bellissimo: quando ci vuole, ci vuole. (Manuel Maverna)