STEVEN WILSON "The overview"
(2025 )
Per fortuna ci sono ancora mattacchioni creativi senza filtri e senza limiti che tengono alta fino alle stelle l'asticella del possibile di qualità.
Wilson torna solista con un progetto di 42 minuti che esplora le sonorità dell'effetto panoramico caro agli astronauti che vedono la terra da lassù, e lo articola in due soli lunghi brani o suites, ''Objects Outlive Us'' e ''The Overview''.
Si dirà da parte dei maligni e degli scafati snob: un po' di ambient, una spruzzata di già sentito, già masticato, e il cocktail è servito. Il progressive è quel filo invisibile teso fra i Genesis e i Queen (e ovviamente i suoi Porcupine Tree), e ci metto anche un'eco del vinile a me carissimo "Exposure" di Robert Fripp, ma accidenti, quanta ambiziosa voglia di osare, appunto, senza badare a spese e a filtri, di non fermarsi ai limiti di genere, tradizione, convenzione, voglia anche di inanellare profondità e atmosfere siderali rarefatte, e poi scansioni di ardite risalite, crescendo rossiniani ed esaltanti slanci epici.
Un esperimento è tale se è replicabile e non confutabile, e l'approccio razionale, e direi lisergicamente scientifico, alla musica di Steven Wilson non lascia fuori dalla porta l'emozione.
Certo che dischi così, programmaticamente costruiti e meditati per far meditare e non lasciare indifferenti, richiedono un po' più di cura e di ascolto e non un atteggiamento consumistico (sarebbe da ascoltare la versione Atmos per un trip come si deve), quindi tagliano fuori il 99% degli assuefatti attuali che tollerano, che so, di bersi il caffè e delibare il cornetto al bar con in sottofondo una me...ccia trap italica che, tintinnando nella sua saccoccia pelosa da maranza dollari o euro, scoreggia i suoi asfittici autotune pensando di essere originale e di spaccare qualcosa d'altro oltre che i maroni al prossimo.
E invece quei bar andrebbero disertati in massa, o assediati di pretese di adeguato rimborso per deturpazione delle orecchie. Con Wilson naturalmente siamo su un altro pianeta, a distanze siderali, ed è appunto, questo nuovo disco-esperimento, un viaggio spaziale, una fuga da fermo, una volta si diceva olistica, un bignami della sua estesa cultura musicale, fatta appunto di sapiente calcolo e istintiva empatia.
Ne risulta paradossalmente un disco fatto di semplicità anche laddove schiaccia di più il pedale della complessità e della stratificazione e della violenza espressionistica. Semplice perché - ed è anche il limite di questa perfezione, se proprio dobbiamo trovargliene uno - ogni svolta all'angolo della strada è lì dove te la aspetteresti.
Ma è il prezzo da pagare quando si è consolidato un percorso e si abita una zona confortevole, capita anche ai migliori, ma dannazione, quanto ci gode Wilson e fa godere titillando al punto giusto le memorie sinaptiche di chi è cresciuto con i Led Zeppelin e i Pink Floyd e i Black Sabbath, e ha trovato in lui e in gruppi come i Tree adeguate conferme che non tutto era perduto nella melassa del mainstream.
Butto là un'idea, visto che con l'intelligenza cosiddetta artificiale si promettono meraviglie (e non avete idea di quale truffa vi aspetta, con dischi che saranno irriconoscibili in un prossimo futuro perché manipolati o manipolabili nella loro estensione digitale, per cui tenetevi buoni cd lp e cassette dei nonni): ecco, immaginate cosa sarebbe un disco così prodotto con una robusta dose di sano funky da una coppia come quella che partorì nel 1981 "My life in the bush of ghosts", ossia Eno e Byrne.
Intanto oggi come oggi uno come WIlson è merce rara, teniamocelo buono. Voto 8. (Lorenzo Morandotti)