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SKUNK ANANSIE "The painful truth"
(2025 )
Nel 2025, ossia nell'era della musica consumata in streaming e con le cuffiette, tornare dopo nove anni con un settimo album in studio è un’operazione ad alto rischio: o fai un disco necessario, oppure diventi l’ennesima band storica che pubblica musica per giustificare un tour in attesa della pensione.
Gli Skunk Anansie, va detto subito, scelgono la prima opzione. Non senza lividi, non senza qualche compromesso, ma almeno evitando la più temuta delle sindromi: l’autocover permanente.
Va detto che di sconquassi ce ne sono stati anche per loro e si sente. Così come se ne sentiva la mancanza, e vivaddio che sono tornati.
''The Painful Truth'' nasce da una situazione che definire “complicata” sarebbe un eufemismo da ufficio stampa. Tra genitorialità, problemi di salute, la morte del manager storico e una pandemia globale, Skin, Ace, Cass e Mark arrivano molto vicini a staccare la spina. Ed è qui che il disco trova il suo senso: non come ritorno, ma come verifica di esistenza. Siamo ancora una band o solo una IP da sfruttare?
Skin, come sempre, non indulge in diplomazia. Degli anni Novanta, oggi tanto in voga e in odore di melenso revival (per fare grana e non certo per motivi culturali), non gliene importa nulla. Non perché non abbiano funzionato — hanno funzionato eccome — ma perché, nella sua personalissima teologia rock, e come darle torto onestamente, chi vive di rendita è artisticamente morto (e subito dopo, economicamente).
Una visione brutale, ma coerente. E ''The Painful Truth'' è il risultato di questa coerenza portata alle estreme conseguenze. Può non piacere, può essere urticante, potete dire che è noioso, chi sono questi qui e tenervi i soliti rapper, ma sono fatti vostri.
La decisione di rifugiarsi in una fattoria nel Devon, post-Covid, ha il sapore di una terapia di gruppo. Solo quattro persone nella stessa stanza, a parlarsi davvero. Ed è da lì che nasce un disco che suona meno muscolare e più strategico, meno istintivo e molto più consapevole.
La produzione di David Sitek (TV On The Radio) è determinante. Le chitarre di Ace vengono spesso smontate e ricostruite: meno riff da pugno chiuso, più frammenti, delay, saturazioni controllate, con un lavoro che guarda più al post-punk e all’alternative colto che al rock da palazzetto.
E anche in questo siamo di fronte a un album, volente o nolente, difficile e divisivo anche se visceralmente coinvolgente. Il basso di Cass è profondo, elastico, quasi dub in certi passaggi, mentre la batteria di Mark rinuncia alla spinta frontale per lavorare su groove obliqui, sincopati, a volte volutamente trattenuti.
È una band che sa l'arte di levare, di togliere, il silenzio oltre il rumore, ossia che sa quando non suonare — qualità rara, soprattutto dopo trent’anni di carriera. La scrittura punta dritta al bersaglio: le canzoni sono compatte, strutturate, senza divagazioni inutili. Purezza e autenticità sono i karma, i mantra.
È pop, sì, ma di alta scuola, taylor made, e senza l’ansia di piacere a tutti e a tutti i costi. Più che cercare il singolo da playlist, il disco sembra voler dimostrare che la forma-canzone può ancora essere un’arma, se usata con intelligenza.
E poi anzi soprattutto c’è Skin. Una garanzia. Una pietra angolare. Una pietra miliare. La voce è ancora il centro di gravità permanente, ma qui abbandona gran parte dell’enfasi iconica del passato. Siamo su un pianeta piu meditativo e riflessivo come detto. Meno slogan, più crepe. Più autentcità. Piu rughe. Meno filler. Meno filtri, anche se come detto il lavoro di produzione e i relativi sforzi c'è e si sente. Meno predica, più confessione. Quando alza il volume lo fa con precisione, non per automatismo. Piacione, per strizzare l'occhio a chi la ama da trenta anni.
Ed è forse questa la differenza più evidente rispetto ai dischi storici: ''The Painful Truth'' non vuole dominare, vuole convincere. Una bella sfida. Voto 9. (Lorenzo Morandotti)