THE DOORS  "The soft parade"
   (1969 )

Il quarto disco dei Doors, “The Soft Parade”, risente pesantemente della crisi, prima personale e poi musicale, che aveva iniziato a minare la solidità del gruppo fin dall’anno precedente. Ciò che rimaneva nel ’69 di quella band che solo due anni prima era riuscita ad infiammare di passione i cuori di innumerevoli fan era assai preoccupante. La catarsi e la pregnanza dei primi lavori era totalmente scomparsa, ma non solo. Anche quel buon gusto musicale che aveva salvato il disco precedente appare quasi totalmente svanito. Ci troviamo così di fronte ad irrisolti abbozzi classicheggianti come “Tell All The People” o noiose ed anonime invettive blues come “Do It”. “Easy Ride” è un pallido giochetto country, che non diverte affatto e quando cerca di coinvolgere fa solo rimpiangere i vecchi Doors; “Runnin' Blue” è troppo mielosa per poter davvero esser stata scritta dall’autore di “Light My Fire”. Per fortuna, qualche canzone è anche bella. L’ipnosi sulfurea di “Shaman's Blues”, eccentrico dialogo tra voce e chitarra; la dolce danza di “Wishful Sinful”, commossa e leggiadra, soprattutto per merito degli archi. “Wild Child” ripropone le sonorità granitiche di “Five To One” e che verranno poi perfezionate in “Roadhouse Blues”. Non è di certo un capolavoro, ma si lascia ascoltare con piacere. Nella title track si cerca di riproporre la fortunata formula della cavalcata multiforme, del viaggio metafisico. In questo caso, più che di metafisica, bisognerebbe parlare di distorsione della realtà. Trattasi infatti di un viaggio allucinato, che svaria su diversi toni ed atmosfere, prima dolce, poi veemente, infine graffiante. L’idea non è male, ma mancano la lucidità e l’eclettismo di un tempo. Manca la passione ardente che trasudava dal canto di Morrison. Il vero ed unico capolavoro del disco rimane però “Touch Me”, commerciale quanto perfetta, facile quanto indimenticabile. È uno dei migliori episodi di puro intrattenimento della band. I fiati hanno un ruolo fondamentale nel loro dialogare con la melodia frizzante. “The Soft Parade” è un lavoro che risente molto della condizione psicofisica di Jim. Manca l’ispirazione a livello di composizioni. L’impegno c’è, e qualche buon risultato lo dimostra, ma ciò che prevale è la noia e il disinteresse per un album che è la lampante dimostrazione di quanto la droga e l’alcool non fossero altro che ostacoli all’espressione artistica del Re Lucertola, non stimolanti. Non erano gli acidi a far si che la musica del gruppo facesse superare le Porte della Percezione. Era il talento, la poesia, la sensibilità ed un coinvolgimento emotivo - esistenziale senza pari che rendevano unica l’esperienza Doors. Scomparsi questi, scomparve anche tutta la magia mistica e poetica della band. Ciò che rimase è una discreta formazione rock-pop. Nulla di più. (Fabio Busi)