THE CURE  "Japanese whispers"
   (1983 )

Mai lavoro fu più controverso ma, se vogliamo, taumaturgico. Riassunto: Robertino nostro non ne ha più, esausto dal troppo lavoro (doppi concerti, in prima serata come voce dei Cure, e in seconda serata come chitarrista di Siouxsie) e ormai ricurvo sul ruolo di icona dark che mai, e poi mai, aveva il permesso di sorridere. Se le era poi andate a cercare, perché dopo i suoi parti funerei, le sue pornografie, e un album (“Pornography”, appunto) che iniziava con il belluino urlo “non conta se moriamo tutti” – sarebbe servito un Massimo Troisi a suggerire “mò me lo segno” – non si poteva chiedergli altro. Per cui la band si sciolse, lui andò a vedere film insieme a Steve Severin e a partorirne un album a nome The Glove, e intanto la casa discografica decise di mandare alle stampe qualcosa che non c’entrava davvero niente con loro. “Let’s go to bed” era una rottura clamorosa con il passato: drum machines, sintetizzatori, qualcosa insomma che non sarebbe dispiaciuta agli Yazoo, per intenderci, ma che non poteva andar bene a chi, da fan dei Cure, si aspettava qualche necrologio. Robertino si infuriò e non poco, specie quando, dopo di questo, arrivò “The walk”, cosa che pareva scritta con la stessa mano di “Blue monday” dei New Order. Eppur qualcosa si stava muovendo, specie quando il terzo singolo, “The lovecats”, fece blanda apparizione in classifica. L’album era poi di sole otto canzoni, ovvero i singoli più qualche lato b, ed era un eccellente esempio di tecnopop britannico non del tutto convertito alle hit parades: vero sì che Robertino cantava robe che mai si sarebbe sognato qualche mese prima (“Potremmo andare in soffitta a ballare tutta la notte”) e suonava dei curiosi swing mentre, nei video, pareva giocare con matite e gessetti, ma c’era anche un po’ di cupezza (“Lament”, in primis, o “Just one kiss”) per far capire che non gli era andato di volta il cervello. Inizialmente ripudiato dai fans, e da Robert stesso, “Japanese whispers” diede però una nuova dimensione al prodotto Cure, facendo tornare tutti sulla terra e dimostrando che si poteva stare bene pur senza andare sull’orlo del suicidio. Non eravamo ancora arrivati alle vette commerciali che sarebbero arrivate in seguito, ma tutta l’opera dei Cure di fine anni ’80, oltre ad una bella fetta di salute, Smith se la trasse da questo lavoro quasi apocrifo. (Enrico Faggiano)