ALPHAVILLE  "Afternoons in utopia"
   (1986 )

Si erano già semisciolti, quando del trio di “Big in Japan” uno lasciò il posto ad un altro, e così quando tornarono ad incidere, dopo il clamoroso successo di “Forever young”, sembravano già dei sopravvissuti. Ma, soprattutto, fuori moda. Le loro tastiere ormai erano qualcosa che faticava a restare in radio già orientate verso altro, e aver lasciato passare un anno senza singoli – suicidio, ai tempi – li aveva fatti perdere di vista a chi ne aveva amato gli esordi. Per cui, quando “Dance with me” iniziò a farsi largo, venne accolta più come un corso d’aggiornamento che non con esaltazione collettiva. Anche perché l’album, a dire il vero, offriva ben pochi contributi alla commercialità vera e propria. Una specie di concept, dove all’elettronica si aggiungevano cori, sinfonie e tanto altro che li rendeva difficili da collocare: eppure “Universal daddy”, “Jerusalem” e “Sensations”, usciti appositamente come singoli essendo le cose più ritmate del disco, non riuscirono a rompere il muro dell’anonimato, e risollevare le sorti commerciali di un lavoro molto particolare, non di facile impatto, e che mandò sfortunatamente a picco le quotazioni di Marian Gold e soci. Troppo complicati per essere commerciali, forse, e senza il giusto spessore per riavvicinare all’elettropop chi ormai aveva cambiato genere. O, senza peli sulla lingua, non abbastanza belli per un mondo che li voleva, prima di tutto, fighi e mesciati. Loro sarebbero andati avanti, con lavori sempre più autoreferenziali (c’è anche un’opera uscita su otto, otto cd, tanto per rendere “La corazzata Potemkin” un filmino delle vacanze), mantenendo un loro popolo di nicchia, continuando a guardare avanti senza mai farsi risucchiare dalla comoda scorciatoia dell’amarcord. (Enrico Faggiano)