JOVANOTTI  "Una tribù che balla"
   (1991 )

Tornato all’ovile di Radio Deejay – non che se ne fosse poi allontanato -, ma soprattutto tornato a ringiovanire il suo stile, dopo le rincorse al progressive dei ’70, con questo album Lorenzo cambiò decisamente strada. “Con questo disco qui che è il mio nuovo ellepì son tornato a fare il rap chi è contento dica sì”, esordiva il Nostro. E, finalmente, la formula iniziò a funzionare: un po’ perché ormai ci si era fatti il callo, con la musica campionata e senza melodia, un po’ perché i testi italici di Jovanotti cominciarono ad andare oltre il “siamo o non siamo un bel movimento”, infine perché il prodotto poteva andare avanti a testa alta: magari non vi piacerò, poteva dire, ma almeno non sono più un deficiente. Va bene, direte voi, però il primo singolo (“Muoviti muoviti”) partiva con un musica musica musica della madonna, gente gente gente divertente, e allora dove sta tutta ‘sta maturità? Beh, si possono dire cose banali senza trascendere nella scemenza, ecco: Jovanotti ammetteva, in musica, di aver fatto “Sanremo, Fantastico e il resto”, e che fosse facile prenderlo per un mero evento mediatico senza profondità. Però la title track poteva essere, nel suo piccolo, un manifesto adolescenziale superiore a “Il capo della banda”, qualche lento (sebbene in un altro pezzo urlasse “Abbasso i lenti”) andava oltre l’inaffrontabile “I need you” del primo album. E, bene o male, nella nuova frontiera del rap italiano che si andava a delineare, ci stava bene anche lui: più commerciale delle Posse o simili, ma nemmeno banale oltre ogni decenza. Insomma: la rinascita del soggetto parte da questo disco. (Enrico Faggiano)