THE AIRBORNE TOXIC EVENT  "The Airborne Toxic Event"
   (2008 )

Mischiate "Sancteria" dei Sublime e "Read my mind" dei Killers, prendete il risultato e datelo in mano ai Franz Ferdinand, ed avrete un'idea di come suona "Happiness is overrated", traccia numero 4 di un album infarcito di una serie impressionante di rimandi, citazioni, scopiazzature, influenze e quant'altro, ma non per questo meno bello e meno piacevole. Gli Airborne Toxic Event sono un quintetto losangelino con all'attivo tre album, ben accolti dalla critica e stroncati (il primo, quello di cui si parla qui) polemicamente da Pitchfork: niente di che, intendiamoci, specie per i palati fini che ricercano in un disco un che di innovativo, sperimentale, bizzarro o azzardato. Ma qui c'è di che soddisfare mezzo mondo, almeno quella metà che - in un certo senso - si accontenta di canzoni più semplici e dirette, roba sì da poter canticchiare, ma abbastanza “indie” da permettere di schierarsi tra il pubblico alternativo. E soprattutto si tratta di un disco che presenta – per chi poco umilmente vi scrive queste righe – un plus che lo rende già di per sè apprezzabile: al primo ascolto, non si è in grado di formulare alcuna previsione nè ipotesi su come avrebbe suonato il pezzo successivo. Il disco si apre con “Wishing well”, mid-tempo tastieristico con suggestioni shoegaze ed inserti ariosi, forse il brano meno significativo dell’album (stranamente scelto come opener); da lì in avanti il clima si surriscalda in un florilegio vorticoso – a tratti addirittura smaccato - che frulla lezioni mandate a memoria, dal riff stratificato di “Papillon”, che sembra provenire direttamente dal repertorio dei primi Bloc Party seppure con maggiore enfasi nel canto, al rockabilly furbetto di “Gasoline”, forte di un chorus contagioso e di un incedere frenetico. E se i Killers sembrano materializzarsi nell’irresistibile groove danzereccio di “Happiness is overrated” con un singalong devastante nella sua semplice stesura ed elementare orecchiabilità, il fantasma degli Smiths fa più che capolino nella successiva “Does this mean you’re moving on?”, alla quale manca solo la chitarra di Johnny Marr per essere una perfetta pop-song, mentre è impossibile non immaginare gli Interpol nel passo squadrato ed oscuro di “This is nowhere”. “Sometime around midnight” è una via di mezzo tra “Where the streets have no name” ed il crescendo monocorde di “Heroes”, mentre in “Something new” va in scena su un ritmo in levare una bizzarra rivisitazione dei Talking Heads, seppure meno complessi; nemmeno il tempo di capirci qualcosa che arriva il country-folk spartano di “Missy” con una roboante esplosione finale à la Gaslight Anthem, prima della caotica chiusura di “Innocence”, tra Arcade Fire e Clap Your Hands Say Yeah, introdotta da una bella apertura sinfonica e chiusa in bilico su un altro crescendo spasmodico. Disco veloce, ritmicamente serratissimo, godibile dal primo all’ultimo brano; disco che suona talmente “inglese” da far sembrare fuori luogo l’accento americano del cantante Mikel Jollett, dal quale ti aspetteresti un’inflessione cockney anzichè le vocali aperte e certe divagazioni bislacche nell’intonazione. Facile, poco impegnativo, eterogeneo fino all’eccesso: in una parola, bello. (Manuel Maverna)