FUGAZI  "13 songs"
   (1989 )

I Fugazi da Washington D.C. sono tra le band più rilevanti ed influenti nella storia del rock, con particolare riferimento alla sua evoluzione a partire dagli anni novanta. Provenienti dalla scena hardcore, a sua volta estremizzazione e superamento del punk, i Fugazi seppero dar vita ad un superamento dell’hardcore stesso generandone una versione che, anzichè esplodere secondo i consueti canoni, procedeva implodendo su sé stessa. Pur mantenendo alcuni elementi precipui del genere (l’attitudine feroce, il canto sguaiato e mixato dritto in faccia all’ascoltatore, le usuali tematiche sociali incentrate sulla lotta dell’individuo contro il sistema massificante), l’idea geniale di MacKaye e soci fu quella di sbriciolare le canzoni conservando sì la sostanza dell’hardcore, ma rivedendone completamente la forma. Il risultato, già visibile ed apprezzabile in questi tredici brani che raggruppano i due ep di esordio, è spiazzante e stordente; la concezione stessa dei brani crea un effetto vorticoso e straniante, dando un senso di fastidio e di vertigine che non si placa mai, continuando anzi a lievitare in un crescendo di tensione emotiva. L’impatto viscerale è tremendo nella sua rabbiosa ferocia, le due chitarre dialogano in linguaggi talora incomprensibili generando scontri a volte incredibilmente consonanti (ti aspetteresti il contrario) sullo sfondo di una continua, insistita frammentazione della ritmica (“Waiting room”) che dispensa irregolarità a piene mani: peraltro i quattro sono fior di musicisti, in grado non solo di concepire ma anche di saper gestire tecnicamente un simile progetto sonoro. Le esplosioni sono solo suggerite (“Bulldog front”), mentre in realtà vengono controllate e stroncate sul nascere; i ritornelli non trovano sfogo, e men che meno i proclami e gli slogan tipici dell’hardcore (fa eccezione “Margin walker”, più tradizionale in tal senso, seppure sfibrata da una rullata inattesa della batteria a spezzare il giro); il climax è quasi sempre simulato o rimandato (come nell’allucinata esitazione di “Burning”, trafitta da clangori assortiti e distorsioni reiterate), o addirittura disseminato in più punti (le montagne russe di “Suggestion”, tra impennate e stecche gutturali), come se un vulcano avesse più bocche; i brani sembrano sempre sul punto di deflagrare, ma paradossalmente non lo fanno mai, e nei pochi casi dove paiono riuscirci vengono troncati bruscamente. La durata media delle canzoni è inferiore ai tre minuti, un tempo più che sufficiente a confondere le acque, ad impastare le idee e ad accumulare una tensione intensissima solo di rado rilasciata. Non sono canzoni piacevoli, e mai lo saranno nell’intera carriera a venire; è furia compressa che trova in questa sua autocastrazione il rafforzamento della propria violenza, apparentemente cieca ma in realtà fredda e ponderata, metronomica, precisa. Gli accenni di melodia sono scarsissimi (“Provisional” lambisce l’atonalità grazie all’interpretazione di Picciotto), e quando fanno capolino, come ad esempio nella conclusiva “Promises”, sono immancabilmente sbriciolati dalla brutale efferatezza del latrato belluino di MacKaye (“Lockdown”, che accenna un refrain a metà andando poi a colassare in un buco nero) tramutato talvolta in algida indifferenza (“And the same”, raggelante nel suo passo quasi disco-music ma scossa nel prosieguo da rigurgiti animaleschi). Musica fintamente sgraziata, freddamente truce, frutto di una riflessione accurata sul mondo e sulla società, figlia di tempi disgregati, confusi, tesi come lame. (Manuel Maverna)