KEREN ANN  "La disparition"
   (2002 )

Keren Ann è una graziosa e garbata cantante di origine israeliana vissuta tra Olanda e Francia, la cui considerazione si è accresciuta nel corso degli anni fino ad affermarla sia come interprete di alto livello sia in qualità di autrice talentuosa. Oramai definitivamente approdata alla lingua inglese e ad un sound di matrice prettamente anglosassone, per “La disparition” utilizzò invece esclusivamente il francese, meglio adatto a rendere con trasognata espressività la languida atmosfera creata ad arte – e su misura per lei - da Benjamin Biolay. L’enfant prodige della nouvelle vague del pop transalpino – a detta dei critici l’anello di congiunzione tra la chansonne tradizionale ed il cantautorato pop impegnato – è co-autore e produttore dell’intero lavoro, oltre che strumentista aggiunto prestato alla causa. Di suo la bella Keren ci mette invece testi melanconicamente introspettivi ed un filo di voce impostata (da brividi la murder-ballad di “Le sable mouvant”), in un registro sommesso e suadente tipico delle interpreti francesi votate allo stile più confidenziale, senza osare più di tanto nè forzare i toni. Inconfondibile la mano di Biolay in molte delle tracce dell’album, in particolare quelle che più si discostano dalla forma e dalle sonorità tradizionali d’oltralpe: la fluente ballata introspettiva di “Au coin du monde” che apre il lavoro ad un passo pigramente campestre sembra provenire direttamente da “Home” (l’album con Chiara Mastroianni), come immediatamente riconoscibile è l’impronta lasciata sul ritmato chill-out di “Le corde et le chaussons” (con tanto di vocoder) o le divagazioni jazzate del bluesaccio esitante “Le chien d’avant garde”. A tratti sembra di trovarsi in un fumoso piano-bar, come nei cinque minuti del mellifluo ballabile retrò “Ailleurs” o nella nenia morbida di “Surannee”, o ancora pare di precipitare in un buco spazio-temporale che proietta ombre beatlesiane sul merseybeat di “Mes pas dans la neige” e suggestioni anni ’40 nello shuffle insinuante de “L’illusioniste”, chiusa da uno splendido solo di tromba che sembra uscito da una vecchia registrazione di Roy Eldridge. Resta solo il tempo per la subdola ninna-nanna della title-track - musicalmente avulsa dal resto del disco - che dipana esplicita il proprio tema truce su una dolce melodia sublimata in un coro di bambini, un po’ bedtime story un po’ suicide note, prima che cali il sipario su un disco aggraziato, cesellato e cerebrale, pretenziosamente intellettuale, fascinosamente noioso. (Manuel Maverna)