THE SISTERS OF MERCY  "Floodland"
   (1987 )

Figura sciamanica da sempre ammantata di un’aura sacrale e ieratica, Andrew Eldritch è personaggio inquietante e spettrale, votato all’ostentazione di una cupa, opprimente, teatrale austerità, folletto misterico che ha saputo cementare con una invidiabile coerenza, ed altrettanta sincera assiduità, il divario tra arte e vita. Realmente sfuggente ed irraggiungibile, la sua esile figura è quasi sempre indistinguibile, avvolta da un cuore di tenebra che restituisce molte ombre e quasi nessuna luce; la sua è una musica immancabilmente tetra, un rimbombare di tonalità basse sulle quali fluttuano, evocative e stralunate, frasi di chitarra che trovano nella reiterazione ossessiva la propria ragion d’essere. Plasmate dal timbro baritonale del piccolo demone, le canzoni rinunciano a sviluppare trame complesse, spostando altresì il pathos più sulle atmosfere che sulle costruzioni; le staffilate metronomiche della drum-machine non fanno che accrescere la claustrofobia dell’insieme, conferendo ai brani le sfumature da brivido – più che da incubo - che hanno reso i Sisters of Mercy i sovrani indiscussi del rock gotico di fine eighties. In “Floodland”, secondo lavoro e di fatto album solista di Eldtrich, che lo assemblò in larga parte con l’ausilio del computer e con pochissimi apporti esterni di collaboratori di ventura, lo schema si ripete infallibile dal principio alla fine, senza che mai si intraveda uno spiraglio di luce nè un qualche alleggerimento nelle spesse trame che drappeggiano l’incedere funereo di queste tracce insistentemente cantilenanti: anche quando è il solo pianoforte, lasciato nudo e spoglio come in un lied cameristico, a reggere una melodia a suo modo toccante e melanconica (“1959”), l’impressione di tragedia incombente aleggia a mezzaria impregnando i versi di un umore sinistro, complici anche un paio di accordi disarmonici infilati ad arte per accrescere la tensione; tensione che deflagra – non violenta, quasi ritualistica – nelle due titaniche cavalcate di “Dominion/Mother Russia” (che simula addirittura un funky sbilenco) e “This corrosion”, diciotto minuti complessivi a passo di carica tra cori anthemici ed aperture wagneriane, e che rimane invece più trattenuta e cerebrale nelle scudisciate marziali, ma armonicamente algide, di “Flood I” e “Flood II”, come nella rarefatta, depressa ballata di “Driven like the snow” (con Patricia Morrison al basso); tensione che lievita infine magistralmente in uno dei capolavori dell’intera carriera di Eldritch, quella “Lucretia my reflection” la cui intensità cresce parossisticamente a partire da una linea squadrata di basso, capace di pulsare nello stomaco e di giungere alla saturazione dei sensi nello spazio di pochi minuti di irripetibile intensità, mentre Andrew Eldritch, occhiali scuri e presenza luciferina, sembra scomparire dietro l’ennesima coltre di fumo che lo avvolge come un sudario, tanto impalpabile quanto impenetrabile. (Manuel Maverna)