VIOLENT FEMMES  "Violent Femmes"
   (1983 )

Sono già trascorsi trent’anni da quando tre scapestrati di Milwaukee pensarono bene di affacciarsi alla affollata ribalta del rock proponendo un’insolita rilettura del folk rurale e del rockabilly anni ’50 in una veste nè populista nè giocosa, bensì sottilmente maniacale ed intimamente perversa. Il risultato, la cui geniale unicità è ancora oggi indiscutibile, era una sorta di musica proto-punk, ma suonata con strumenti acustici: l’effetto era spiazzante, perchè riusciva a comunicare al contempo brio e lascivia, immediatezza ed inquietudine, sentimenti antitetici sublimati in composizioni grezze e sghembe da robusti accenti ritmici e da liriche quantomeno ambivalenti, se non criptiche o addirittura sinistre. Il canto nasale e sordido di Gordon Gano, il basso frenetico ed irrequieto di Brian Ritchie e il drumming minimalista di Victor DeLorenzo costruiscono un contagioso album di debutto diretto ed accattivante, tra episodi da college-music (il chorus da Paul Anka di “Please do not go” o il r’n’r di “Prove my love”) ed improvvise impennate maniacali; le tre pietre miliari che costituiscono la summa dell’arte sbilenca dei Violent Femmes (“Blister in the sun”, “Kiss off”, e soprattutto la celebre “Gone daddy gone”) sciorinano in pochi minuti tutti i possibili trucchi del mestiere di cui il trio di sbandati dispone: coretti da Beach Boys, ritmi serrati, testi scarni dai risvolti psicotici, atmosfere che divengono insolitamente opprimenti pur rifuggendo dalle caratteristiche solitamente ascritte alla musica “oscura”. La mascherata funziona alla perfezione, trasformando innocue canzonette in bizzarrie anthemiche capaci di iniettare linfa omicida in trame tanto esili quanto tese, tanto spoglie quanto spettrali: è il caso del boogie assassino di “Add it up”, altro loro cavallo di battaglia, o del delirio di “Confessions”, fino allo shuffle svogliato di “To the kill”, con un massiccio lavoro del basso di Ritchie a ricamare una melodia indolente sbavata dal crooning altalenante di Gano. Disco di enorme coesione e di rilevante cifra stilistica, album che mantiene immutata la propria caratura artistica nonostante le molte primavere e le altrettante correnti musicali che sembravano poterlo sommergere in questi ultimi trent’anni, lavoro che conserva intatta la propria furia iconoclasta confermandosi come apripista di uno stile a suo modo riconoscibile ed ineguagliabile. (Manuel Maverna)