I CANI  "Glamour"
   (2013 )

Fatevi sotto, bambini, stringiamo un patto: tenete per voi la musica che volete, compresi Mengoni e i Daft Punk: in cambio – vi prego - lasciatemi I Cani, ed abbandonatemi alla deriva in un gorgo di nostalgica, solitaria melanconia, dimenticandovi pure di me insieme a questo disco. Ve ne sarò grato. Poi continuate pure – beata gioventù e denigratori di ventura – ad accapigliarvi sui social network discutendo dei Cani, hipster (si dice così, no?) vs. non-so-più-chi, lo facevo anche io alla vostra età, seppure fosse per passione, giammai per sudditanza alla moda del litigio oggi tanto in voga, a partire dai media che la impongono erga omnes. Indi stabilite pure, voi critici, voi personaggi austeri, le affinità musicali che legano il signor Contessa a chissà quale scena o tendenza, criticatene la rivedibile dimensione live o i suoni desueti, declassatelo a starlette artificiale, al più a meteora di secondo piano; proseguite indisturbati, gente, nella vostra ostentata battaglia contro l’ingigantimento e la distorsione dell’umana commedia che un occhialuto ventisettenne romano, medioborghese e falsamente massificato, ordisce contro l’infinita vanità del tutto; sostenete le vostre ragioni universalmente valide ed universalmente confutabili, seguitate a linciarvi ed a linciarlo (sorpresa: di recente qualcuno ha iniziato anche ad osannarlo...) senza curarvi delle parole che dovreste almeno provare ad ascoltare mentre scorrono sanguinarie un’ottava più giù del vostro convulso berciare. Per questa volta, voglio concedermi il lusso ed il privilegio di infischiarmene di beghe di maniera come Rhett Butler di Rossella O’Hara, e a quarantadue anni suonati, padre di famiglia e marito premuroso, il mellifluo canto di sirena di “Glamour” è richiamo sufficientemente suadente per appagarmi. Capitava a diciott’anni, meno a trenta, assai di rado oggigiorno. Già mi era bastato lo shock del “Sorprendente album di esordio” per innamorarmi come un adolescente di questo giovanotto dall’aspetto qualsiasi e dello sfacciato, sfrontato raggiro di quello stesso mondo modaiolo e trendy che cancellava con uno schiocco di dita; al ricordo ancora fresco di quello shock, il timore di un brusco risveglio era forte. Ma è andata bene. Non ha avuto paura, il ragazzo, di copiare/clonare/rovinare/distruggere la turris eburnea eretta nell’album di esordio, non ha temuto il passo falso, il calo di ispirazione, l’oblio. E questo disco, che musicalmente richiama con forza il precedente, ne ribalta invece i contenuti trattando sì di un mondo diverso, ma con la stessa lucida, algida insensibilità che rendeva agghiacciante i tre quarti dei brani di due anni fa. Si tratti di nichilismo simulato o di scoperto snobismo (non so perchè, ma mi sovviene prepotentemente l’ambientazione della “Song for Clay” dei Bloc Party), di dandysmo postdatato o di scaltrezza da poser improvvisato, poco importa; l’atarassia sbandierata, questa cerebrale, metodica fuga dalle passioni che occulta sentimenti dietro i tanti paraventi da off-broadway (si veda la raggelante “Asperger”, pubblicata sullo split del 2012 coi Gazebo Penguins), santifica il dettaglio insignificante fino a renderlo regola: l’aria volutamente disimpegnata di “San Lorenzo”, contrasto stridente che dispensa un trattato di astronomia con un piglio canzonettaro tra il migliore Francesco Gazzè ed il Battiato più astratto (“Tutto l’universo nasce e muore di continuo [...] quindi andare a chiedere favori alle stelle cadenti/non è tanto di cattivo gusto/quanto arrogante”), o il desolato up-tempo della meravigliosa “Come Vera Nabokov” col suo resoconto di una love-story deviata (“solo tre o quattro cose passano la tua censura/sesso e violenza, foto di gatti e affetto brutale/sparato in faccia come aria compressa”), trasudano pulsante disillusione, il distacco consapevole dell’assassino che aspetta di uccidere nuovamente, in rilassata attesa. Benchè inalterata permanga la profondità del messaggio, rivolto ora alla gelida analisi di sé stesso anzichè alla stigmatizzazione degli altrui limiti (vestigia rimaste: il cinico, feroce, impietoso twist di “Storia di un artista”, qualche traccia velenosa nella dance sibillina di “Non c’è niente di twee”), affievolito è forse lo sforzo profuso nella caratterizzazione dei personaggi, paradossalmente proprio in un lavoro fondato sul sè; abbondano le ossessive, quasi mantriche reiterazioni verbali (oltre metà di “Corso Trieste” è occupata da un’unica frase ripetuta all’infinito), dilaga l’autoanalisi compulsiva (“Storia di un impiegato”, “Lexotan”), si staglia su un plastico da Truman Show l’ombra plumbea di una cara catastrofe soltanto suggerita. Disco splendidamente infido ed ambivalente, l’equivalente di un maremoto che – sordo e strisciante - prende forma in profondità, mentre in superficie le acque continuano – per ora – a scorrere placide, nella generale, calma, ignara indifferenza. (Manuel Maverna)