LES COWBOYS FRINGANTS  "La grand-messe"
   (2004 )

Basterebbe il minuto e cinque secondi di “Intro”, strumentale incantevole per piano e sogni che apre l’album, per fare di questo disco una gemma preziosa. Basterebbe la successiva “Les etoiles filantes” a giustificare qualche ora spesa ad imparare un po’ di francese per meglio apprezzare la malinconica ma speranzosa amarezza di un testo troppo bello per poterlo riassumere e di una musica tanto soave da rasentare l’impalpabilità. Canzone eterea, triste come la vita, bella come la vita, un’oasi di esistenzialismo lieve ad un passo dal capolavoro. E basterebbero i tre brani successivi (la cavalcata di “Ti-cul”, la tirata ecologista di “8 secondes” e lo scenario apocalittico di “Plus rien”) per fare de “La grand-messe” una pietra miliare del folk etnico tout-court. Ma poi questi cinque (allora) scapestrati girovaghi del Quebec iniziano un po’ a pasticciare rimescolando le carte, buttando nel mucchio qualche canzone non indispensabile (la pretenziosa “Symphonie pour Caza” o la poco incisiva “En attendant”) e dilatando l’album forse oltre il necessario, appesantendolo con armonie melodrammatiche (“Hannah” suona eccessivamente melensa) e rallentamenti sdolcinati (“Ces temps-ci”, comunque bella nel suo fluire languido). C’è spazio anche per qualche sortita in territori non impervi ma quantomeno limitrofi, dallo strumentale indie “Shish Taouk” alla densa, intensissima carezza di “Ma belle Sophie” sussurrata da Marie-Annick Lépine in un registro trasognato e suggestivo, o ancora alla ballata dylaniana di “Lettre à Lévesque” con un testo a sfondo politico. E poi ancora altre puntate nel folk più trascinante e classico (“La reine”, con fiati irresistibili, o la divertente sceneggiata di “Camping s.te-Germaine” col suo racconto di uno strampalato viaggio di nozze), fino alla chiusura palpitante di “Si la vie vous interesse” (che ricorda un po’ il cavallo di battaglia “En berne”, ad un passo dai primi Louise Attaque) e “Epilogue” (standard campagnolo con un'armonica à la Neil Young di "Harvest"). Molta, moltissima carne al fuoco, forse addirittura troppa: disco sovraccarico, gonfio, esagerato, ricchissimo, che sarebbe stato straordinario con quattro-cinque pezzi in meno, ma che regala momenti di autentica beatitudine grazie soprattutto ad alcuni brani la cui cifra stilistica rasenta la perfezione. (Manuel Maverna)