SCOUT NIBLETT  "It’s up to Emma"
   (2013 )

Elfo trasandato dal look low-profile, la quarantenne britannica Scout Niblett è da ben oltre un decennio una delle più palpitanti, viscerali, emotivamente aggressive e taglienti voci femminili affacciatesi sulla ribalta dell’indie-rock. Benchè colpevolmente ignorata da pubblico e critica a causa di una sottoesposizione mediatica che è sia causa che effetto dello scarsa risonanza ottenuta, Scout riversa in una musica aspramente feroce nevrosi stratificate e traballante alienazione; scarna ed essenziale, ruvidamente granitica, violentemente spoglia, forse lasciva nel suo insistito biascicare che si tramuta repentino in gorgheggio, la signora spolpa all’osso un blues sghembo che proviene dai recessi più reconditi di un animo inquieto. In un sabba di ancestrale, primitiva urgenza, nel quale fa capolino una eco edulcorata di Jon Spencer, questa insolita musa, malvestita e poco attraente come la Patti Smith che fu, inscena in nove tesissimi episodi l’escalation di una marcescente love-story tossica calandosi nei panni di una ex delusa e offesa, in transito dall’iniziale irato diniego (l’istinto omicida di “Gun”) all’accettazione conclusiva (la toccante “What can I do?”, con uno straziante contrappunto di violoncello che cede il passo ad una indolente, dolorosa e rallentata cadenza), passando per i vari stadi della rabbia (“Second chance dreams”), della depressione (“My man”), del fatalismo rassegnato (“Could this possibly be”), della maniacalità ossessivo/compulsiva (il verso “I'm always on the run and I hate copy paste for god's sake” viene ripetuto in otto delle nove tracce, ad eccezione della cover – bella e centrata – di “No scrubs” delle TLC). Forse percorso salvifico, o solo desolata confessione che lambisce la suicide-note, “It’s up to Emma” restituisce una Scout Niblett all’apice della propria sfuggente intensità, ingannevole vendicatrice che dispensa rasoiate tanto efferate quanto illusoriamente addomesticate, in bilico tra suggestioni nirvaniane e rimandi a Cat Power, tra distorsioni riverberate ed intima passionalità; album intriso di un chitarrismo sì singhiozzante e monocorde e di un lirismo tanto essenziale quanto funzionale al concept narrato, ma capace di distillare una tensione sospesa e ruggente, raggelante e densa, un incubo narcotico che non è mai stato così reale. (Manuel Maverna)