SHARON VAN ETTEN   "Are we there"
   (2014 )

Nonostante la grande attenzione ricevuta con l’album del 2012 ''Tramp'', Sharon Van Etten è la tipica artista che non conosce pause e che anzi ama stupire ad ogni nuova prova, mettendo in discussione le sue stesse credenziali. La sua musica appare vulnerabile, le discese abissali in cui vengono proiettati i suoi afflati melodici quasi una dichiarazione di intenti spoglia, senza filtri. E’ l’umanità a trionfare, una dimensione cui pochi artisti pop contemporanei possono minimamente accennare. Uno spirito ribelle che conosce anche strazianti pause e riflessioni, che arde comunque, mettendo seriamente in discussione ogni singola esibizione o performance su disco. Il risultato di questa strabiliante odissea è ''Are We There'' – ancora su Jagjaguwar - un disco prevalentemente autoprodotto, eccezionalmente intimo, generosamente sublime e di grande respiro. La maggior parte dei musicisti è felice di cedere gli oneri della produzione ad una figura esterna, spesso il trasporto emotivo è sufficiente a convivere con il proprio spettro artistico. Non quanto accade con la Van Etten, intenzionata a realizzare un disco nei suoi termini, interamente. Il detto ‘la fortuna favorisce i coraggiosi’ sembra quanto meno appropriato. Ancor più se tale coraggio viene ulteriormente temperato. In questo Sharon incontra le sue esigenze nella figura di un veterano quale Stewart Lerman. Già collaboratori ai tempi della serie televisiva ''Boardwalk Empire'' (episodio 36 per la cronaca), i due assumono ruoli diversi, abbracciando l’idea di un disco registrato assieme nello studio di Lerman, in New Jersey. Un’occasione per fornire a Sharon tutti gli strumenti necessari alla realizzazione del disco perfetto. Corredato dagli interventi degli abituali accompagnatori della nostra: Heather Woods Broderick, Doug Keith e Zeke Hutchins. Ai quali vanno affiancati i nomi di Dave Hartley ed Adam Granduciel (The War on Drugs), Jonathan Meiberg (Shearwater), Jana Hunter (Lower Dens), Peter Broderick, Mackenzie Scott (Torres), Stuart Bogie, Jacob C. Morris e Mickey Freeze. E’ evidente sin dale prime note che siamo di fronte ad una nuova presa di coscienza. Un segno evidente della luminosità ed ispirazione che sorregge la Van Etten, che sembra ergersi in una dimensione quasi mitologica, abbracciando il ruolo multiplo di scrittrice/arrangiatrice e producer. Sempre e comunque diretta, senza mostrare segni di cedimento anche a fronte delle più intime confessioni, parti integranti della sua toccante narrativa. Dalla natura del desiderio alla memoria, dall’idea di smarrimento alle promesse di fedeltà, passando per la paura del cambiamento, toccando anche l’immaginario della cura e della salvezza. L’artista che usa questo tono confidenziale, ci sta invitando a guardare più profondamente nella nostra anima. Solo con questo spirito analitico sarà più logico affrontare le quotidiane avversità. Ricettivi a tutti i costi, respirando comunque profondamente. Anche nei momenti più intimisti, la Van Etten ci mostra che le questioni di vita e di morte possono essere affrontate con il dovuto tatto. Puoi togliere l’elettricità, rimuovere i singoli strumenti, ma la voce di Sharon rimarrà, vivida, assieme ad ogni sua singola parola. Sublime ed eterna.