MAX MANFREDI  "Dremong"
   (2014 )

Quella del 58enne genovese Max Manfredi, insolita figura di artista a tutto tondo, è sicuramente una vicenda tanto significativa quanto insolita nel panorama del cantautorato italiano. Pur trattandosi di una icona sui generis della canzone d’autore - legato in passato anche ad una proficua collaborazione con Fabrizio De Andrè -, la notorietà di Max, accresciutasi in quasi un quarto di secolo di eterogenea attività, rimane confinata ad un ambito di nicchia. Per ben due volte insignito della prestigiosa Targa Tenco (migliore opera prima per “Le parole del gatto”, debutto del 1990, e migliore album dell’anno per “Luna persa” del 2008), Max continua tuttora ad intervallare la propria attività canora con non infrequenti incursioni nel campo della narrativa, del teatro, delle arti figurative, sempre esibendo con discrezione una consumata abilità compositiva ed una solida padronanza dei propri mezzi comunicativi. “Dremong”, che giunge – finanziato dal crowdfunding - a sei anni di distanza da “Luna persa”, è disco ricco e spavaldo, dalla scrittura lucida ed espressionista, segnato da una profondità narrativa che materializza vicende e personaggi mai così vividamente reali; compendio d’arte varia, nuova ed ancestrale al contempo, lavoro finanche eccessivo nella sua insistita, talora magniloquente verbosità (“Il negro”), “Dremong” accosta sapida inventiva e meditata riflessività, rese entrambe per il tramite di uno sguardo incantato che concretizza (da brividi la descrizione pulsante della straziante agonia dell’orso braccato e martirizzato nella title-track) anzichè idealizzare. Manfredi – penna deliziosa - sa essere maestro non soltanto di crudo realismo (splendidi sia il boccaccesco bozzetto della corte dei miracoli caposseliana in “Rabat girl”, sia la descrizione – gelida come la neve che ne ammanta la trama – del grigio piazzista di “Disgelo”), bensì anche di slancio poetico e di affabulazione (il lied di “Diadema” e la dolcezza di “Notte” somigliano ad autocompiaciuti sfoggi di eloquenza, come pure l’intensa “Piogge” con la sua struttura circolare e la prossimità armonica alla “Amico fragile” deandreiana), sebbene raggiunga l’eccellenza proprio negli episodi che con più forza attingono dalla quotidianità: è il caso della feroce “Sestiere del molo”, col suo bestiario dantesco, o del dimesso affresco bellico della conclusiva “Castagne matte”, toccante nella mesta desolazione che mai la abbandona. Ho una teoria, forse solo un tentativo di lettura: la forza di questo disco risiede nel noumeno, nella bellezza delle canzoni in sé, scevre di orpelli e svincolate dal talora inessenziale sovraccarico che fa loro da contorno, a riprova del fatto che non sempre la ricerca di un arrangiamento accattivante (il taglio pop-rock di “Sestiere del molo” suona quasi ridondante, come gli arzigogoli prog-barocchi di “Dremong”) è funzionale alla migliore resa di un brano. Così, le suggestioni tzigane di “Finisterre”, il tango sornione di “Inutile” o lo scherzo in rebetiko di “Sangue di drago” potrebbero cedere il posto alla loro ossatura portante senza perdere un’oncia del fascino che offrono, libere da ogni condizionamento o ammiccante concessione al mainstream più in voga. Disco opulento in qualità e quantità, così strabordante di passione, ricerca, idee e materiale da rappresentare un involontario, elegante sberleffo ai molti parvenu della canzonetta, che regnano sì in classifica, ma che mai sapranno far uso di vocaboli come “cinabro”, “asfodelo” o “artemisia”. (Manuel Maverna)