LOUISE ATTAQUE  "Anomalie"
   (2016 )

Questo disco potrebbe anche essere semivuoto e contenere soltanto i due minuti e quarantatre secondi di “Un peu de patience”, quattro accordi di chitarra, l’immancabile violino del Maestro Arnaud, qualche nota sparsa di synth e le consuete, poche parole che Gaëtan Roussel intona in via quasi confessionale. E’ una piccola canzone, una canzone triste con quell’accordo minore – sempre più o meno lo stesso – messo lì a far male in una minuscola, immensa digressione sulla morte, sul tempo che scorre, sulle solite cose. Mai stato un grande letterato Gaëtan, paradossale figura di istrione schivo, testi brevi spesso ripetuti più volte nell'arco della medesima canzone, immagini, sensazioni, indizi, storie incompiute; mai stati degli innovatori strictu sensu, i ragazzi, seppure, a ben guardare, abbiano sempre amato buttare all’aria ogni castello di carte per ricominciare da capo con un gioco diverso, una nuova sfida a sé stessi. Ed anche oggi che Alex Margraff ha rinunciato a sedersi dietro le pelli rompendo un sodalizio che sembrava imperituro, i tre sopravvissuti ripropongono la loro ennesima versione aggiornata di una musica facile, fruibile e gradevole, geneticamente velata da quella patina di tristesse che tanto bene la musica francese sa indossare per farsi bella e dolente. “Anomalie”, undici anni dall'ultima magia corale che pareva una definitiva cesura cogli irripetibili fasti del passato e che fu preludio alla successiva, brillante carriera solista di Gaëtan, non aggiunge nulla al quadro, sia chiaro, né è da qui che i volonterosi dovrebbero iniziare a studiare le gesta di una band molto più grande della ribalta che il Resto Del Mondo – Francia a parte – le avrebbe dovuto concedere. Ma a conti fatti mala tempora currunt, le mamme imbiancano, le band si sciolgono senza un perché, e questo signor-album è oro colato, disco di facile presa, diretto e senza fronzoli, dieci canzoni per trentaquattro minuti, non una nota sprecata, non una virgola fuori posto, ça va sans dire. E’ un disco ricco, nemmeno questa è una novità, di ritmo e melodie, figlio più della deriva contemporanea del Roussel solista – forse anche di quella gemma perduta che fu la parentesi Tarmac, due album da consegnare ai posteri - che delle molte Louise d'antan, un album onesto, sincero, senza maschere, senza forzature. La prima Louise, giovane, frizzante e colorata, non esiste più, la inghiottì nel suo ventre di balena la Louise nera come l’inferno dell’immenso “Comme on a dit” (a detta di chi scrive, il disco più bello del mondo in saecula saeculorum), la risuscitò da morte apparente la Louise pacificata del sereno ”À plus tard crocodile” con la sua aura di luce soffusa e le sue tinte color pastello. La Louise di “Anomalie” non è nulla di tutte loro, pur serbando in sé vestigia di ciascuna: dalle sassate di “La chute”, “Il n'y avait que toi” e “Du grand banditisme” (oh, la Louise fanciulla...) alle arie raccolte e meditative di “Chaque jour reste le notre” e “L'interieur” (quest'ultima ad un passo lievemente western che rimanda ai Poney Express, sottostimato e delizioso side-project del bassista Robin Feix), dai chorus aperti e radiofonici – tarli per la mente da mandare in repeat - della title-track e di “Avec le temps” alla rasoiata intimista di “Les petales” (con la voce di Clarisse Fieurgant che intona flautata un ritornello sulla morte), fino ai cinque minuti paradisiaci de “L'insouciance”, con la voce di Gaëtan che ti straccia a metà l'anima mentre il violino di Arnaud strazia quanto ancora è rimasto laggiù in fondo. Ma bastano quei due minuti e quarantatre secondi a concedermi finalmente - come Gaëtan che passeggia da solo in un bosco parlando a bassa voce agli alberi di qualcuno che non c’è più – quell'attimo per piangere in pace o per gridare nel silenzio, convinto che sia cosa buona e giusta farlo almeno una volta nella vita, fosse anche l'unica, fosse anche l’ultima, un jour ou l'autre. Meravigliosi, a prescindere. (Manuel Maverna)