MATRIOSKA  "Occhi mossi"
   (2016 )

Per amare i Matrioska è sufficiente stare al loro gioco, che sempre gioco rimane, che sempre gioco è stato, da vent’anni a questa parte. Gigioneggia da una vita e più Antonio Di Rocco, nume tutelare della sigla ed unico superstite del sestetto originario, solo formalmente fedele all’antica sbronza spavalderia, ma tenacemente aggrappato alla consueta melanconia velata ad arte da una impenitente guasconeria. Fu proprio quel divertissement sciorinato in una ritmica rutilante, college-punk e ska a braccetto, a condurli ad un passo dalla notorietà - quella vera – a ridosso del terzo album, “La domenica mattina”: era il 2002, ma i sogni di gloria a volte muoiono all’alba, e l’ascesa dei Matrioska si interruppe proprio lì. Bello ed intimo il successivo “La prima volta”, pubblicato due anni più tardi, ma il tempo era scaduto, il treno era passato. Troppo artigianali, casalinghi e schietti, una banda di amici che suonano in primis per il proprio diletto con la leggerezza e la coerenza di chi certo non mira a seguire tendenze o riempire palazzetti. Dopo un album live (“Lo strano effetto che fa”, 2006) la band dirada impegno ed apparizioni, salvo ripresentarsi con una formazione del tutto nuova sul finire del 2010. A tre anni dal cavallo di ritorno “Cemento” (2013, nove anni dall’ultimo lavoro di studio), che esplorava timido pur restando fedele alla linea, Antonio e i suoi nuovi accoliti pubblicano su etichetta Maninalto! Records, in sordina, ma con la incrollabile dignità di sempre, le dodici tracce di “Occhi mossi”. I nuovi Matrioska non smarriscono la capacità distintiva di raccontare piccole storie, tratteggiandone i contorni in vivaci, nitidi bozzetti quasi naif, storie di tutti i giorni incentrate su umanissimi turbamenti, con molto sentimento (“E’ una love-band?”, giungevano ad autodefinirsi, ironici e provocatori, all’interno della copertina di “La domenica mattina”) e quella innata propensione ad accelerare il ritmo, di qualsiasi cosa si stia discorrendo (“Chiaroscuro”). Ma gli anni passano per tutti, e le storie che Antonio narra oggi, sebbene la sua scrittura sia sempre intrisa di un sentimentalismo sui generis, hanno perso la solare ilarità di un tempo, cedendo il posto ad una intensa, disillusa amarezza (ad esempio nella scalpitante title-track o nella quasi anthemica “SMM”): non più cotte adolescenziali o zingarate universitarie, belle donne e godereccia spensieratezza, bensì uno sguardo disincantato sulla vita, miniaturizzata in diorami che mostrano la parte per il tutto in dettagli universali (“Milano”). A conti fatti e ragion veduta, Antonio e sodali estraggono dal cilindro quello che è probabilmente il miglior album della loro carriera, il più compiuto, il più serio. Ebbene sì: anche il più triste. Altro che “18:23” o “Ci vuole serietà”: qua trovano posto pezzi come “Storia di una storia mai nata”, che Antonio canta come sempre alla sua maniera, sbracata e sguaiata, frontale e imprecisa, ma che dipana una poetica intimista degna delle grandi penne del nostro cantautorato, o come “Il topo e la rana” che viaggia sbilenca sotto le mentite spoglie di una metafora dura e vivida. C’è la sassata di “Luca” ed il classico amarcord agrodolce di “Buon compleanno a te”, la divagazione anni ’60 di “Tu” e l’inattesa oasi di quiete di una “Lenzuola bianche” toccante nella sua descrizione dell’ennesimo amore svanito a due passi dalla meta: soprattutto, in “Occhi mossi” ci sono tutti i Matrioska, di ieri e di oggi, e lì davanti c’è quello che lor signori preferiscono, un aedo di piazza, un leone ferito, un indomito pugile di strada che non intende cedere il passo a qualcun altro. Il suono festoso rimane, ma non fa più sorridere: il ragazzo è invecchiato, il ragazzo è cresciuto. Ci si rivede alla prossima, una musica per pochi amici, come (ben più di) tre anni fa. (Manuel Maverna)