DON DiLEGO  "Magnificent ram A"
   (2016 )

Il diffuso genere musicale comunemente definito Americana, espressione sincretica di folk, rock, country e blues, continua a deliziare i suoi innumerevoli appassionati - localizzati non soltanto oltreoceano – grazie ad un taglio confortante, nella cui avarizia di sorprese risiede forse il segreto di cotanta duratura affermazione. Arte povera che non brilla certo per innovatività o indole sperimentale – Wilco a parte -, l’Americana è una coperta di Linus che dona sicurezza in virtù di un approccio tradizionalista, viscerale, a suo modo passionale e verace, musica mai artefatta che muove dai recessi più intimi dell’anima con la semplicità che si è sempre concessa. Don DiLego, songwriter del Massachussets trapiantato nella Grande Mela, è figura sì defilata in questo panorama, ma personaggio la cui levatura artistica si giova da tempo sia di illustri collaborazioni sia di una inesauribile vena compositiva, la cui ricchezza si è tuttavia tradotta in una produzione discografica piuttosto limitata. “Magnificent Ram A” segue di addirittura un decennio lo splendido “Photographs of 1971”, chiudendo uno iato nel quale Don si è dedicato sia alla composizione di musiche per il cinema (“Ranchero” di Richard Kaponas), sia al side-project Beautiful Small Machines a fianco della fida Bree Sharp, sia soprattutto ad una fruttifera collaborazione con Jesse Malin, spalleggiato nella stesura di “Love it to life” come nella intensa attività live fra Stati Uniti ed Europa. A quattro anni da “The western & Atlantic ep”, lavoro estemporaneo che può vantare la presenza dietro le pelli di Gregg Williams (co-produttore dello storico “Thirteen tales fron urban Bohemia” dei Dandy Warhols), Don si ripresenta con un lavoro che brilla per la personale versione fornita di quell’Americana che si offre qui agli astanti remiscelata con la risaputa nonchalance del mestierante di vecchio corso. Oltre che per la profusione di trame godibili e di intriganti hooks, l’album si segnala immediatamente per l’impiego di sonorità desuete che rimandano ad una tradizione roots declinata nelle sue molteplici sfaccettature, ma che non disdegna sporadiche puntate in territori di confine (non sembri una stranezza: Don è un fan dichiarato dei Duran Duran). Se l’incipit indugia sul trattenuto tribalismo da powwow di “Karma king” e la successiva “A wishful poem” giunge a lambire, con una melodia che si allarga ariosa, un improbabile connubio tra Arcade Fire ed il primo Chris Mansfield, il r’n’r di una irresistibile “Drive like pirates” e le atmosfere vintage di “I’m on fire” ridefiniscono lo scenario virando in seppia uno sfondo d’antan. Dopo la parentesi della quasi springsteeniana “Go pack your suitcase” e le suggestioni più moderniste di “Up in smoke”, è nei quattro brani di coda che l’album raggiunge l’apice e la propria ragion d’essere: il trittico formato da “Don’t bury me alive”, “The west side oak” e “Running in a place with a desperate heart” sciorina tutta l’ammaliante allure di un sound ancestrale, misurata trenodìa che impasta old-time country e railroad song lungo direttrici che sanno di polvere e di epopee lontane, prima di cedere il passo alla chiusa di “Idiot heart”, tremante valzer sintetico sospeso sul passato come un ponte tibetano barcollante, suggello garbato ad un lavoro che rimarca la poetica di un autore appartato, schietto, gentile. (Manuel Maverna)