VINCENT DELERM  "À présent"
   (2016 )

Per ascoltare, apprezzare, infine amare un disco di Vincent Delerm occorre la giusta predisposizione. Una media conoscenza della lingua francese – ça va sans dire - può certamente aiutare, ma è sufficiente il supporto di un qualsiasi dizionarietto tascabile per accostarsi alla materia senza soverchie difficoltà, vista la costante e voluta rinuncia del Nostro ad elevare il tono letterario dei testi oltre la patina di un realismo dolente e minimalista; un’indole particolarmente crepuscolare ed incline alla melanconia potrà anch’essa fungere da ausilio, così come il mood di una giornata novembrina, meglio se incorniciata dal grigio rigore tardo-autunnale. Cuori infranti, esistenzialisti tormentati, artisti falliti troveranno nelle esangui, esili, scheletriche trame di Vincent l’ideale contraltare a quella tristesse autoreferenziale e bohémienne da sempre madrina di un certo cantautorato d’oltralpe virato in noir, quello che contraddistingue anche “À présent”, sesto album di una carriera segnata da frequenti incursioni ed escursioni nel cinema, nel teatro, nel musical. Dal 2002, anno dell’osannato debutto, questo è Vincent Delerm, figlio d’arte di padre celebre, personaggio egocentrico, blasé, presuntuosetto e narcisista, voce ben più che autorevole dell’intellighenzia musicale transalpina, un filo di voce al servizio di piccole canzoni in tonalità minore, melodie semplici e desolate offerte con garbo, eleganza, misura. Chansonnier classico nei modi, ma peculiare nello scavo intimo che i suoi testi epigrammatici propongono, Vincent ha disegnato un percorso che è andato via via epurando la sottile ironia di cui era pervaso, giungendo ad uno stadio – quello odierno – dominato da una mestizia sempre più totalizzante: in “À présent” c’è ben poco di cui sorridere ed assolutamente nulla di cui ridere, neppure nei primi due singoli estratti (“Je ne veux pas mourir ce soir” e “Les chanteuse sont tous le memes”, pregevole duetto con Benjamin Biolay), nemmeno nei pochi guizzi ritmici che solitamente alleviavano la tensione stipata fra le tracce dei precedenti lavori. Rinuncia ad essere pungente, Vincent, abbandona quasi del tutto il frenetico, abusato name-dropping degli esordi, ripulisce la scena e resta solo sulla ribalta, questa volta quasi a nudo, senza maschere, senza nascondersi dietro il paravento di uno humour che non ha più spazio vitale: non ne trova nel rallentamento soffocante di “Danser sur la table” (su un’aria dimessa e sofferente che ricorda la “Evreux” di “Kensington square”), men che meno nella funerea ambientazione ospedaliera de “La dernière fois que je t’ai vu” (c’era già stata “Ambroise Paré” su “Les piqûres d'araignée”), recitata d’un fiato come a scacciare le immagini opprimenti che il solo parlarne evoca, ne smarrisce ogni parvenza nelle arie fosche ed introverse di “Dans le décor” e “Cristina”, prima di calare il sipario sulla insistita, metronomica ripetizione che scandisce il finale di “Le garçon”. Niente più tinte pastello, solo il digradante affievolirsi della luce nel buio di una lunga sera priva di conforto: questo è oggi “À présent”, istantanea quanto mai attuale dello stato d’animo di un artista regredito a uomo, di un uomo tornato ad essere il sé stesso per lungo tempo celato dietro il travestimento di scena. (Manuel Maverna)