LES MARQUISES  "A night full of collapses"
   (2017 )

Sospeso tra un sottile elitarismo e disparate istanze di matrice colta ed intimista, in ultima analisi addirittura filmografica – il cinema è ispirazione sempre presente -, il terzo lavoro del collettivo fluttuante Les Marquises, progetto concepito dal cantante multistrumentista Jean-Sébastien Nouveau ed arricchitosi nel corso degli anni di collaboratori a dir poco illustri (non ultimo Matt Elliott), si colloca al crocevia fra dotta riflessività e provvidenziale apertura ad una espressività più fruibile che in passato. Pervaso da una strisciante aura notturna ed opprimente, “A night full of collapses” (Label "Ici, D'Ailleurs...") insiste su un registro di cupa incombenza mirabilmente affidato a soffocanti atmosfere noir, grevemente plumbee nel loro funereo, introspettivo incedere. Il lavoro, che alterna francese ed inglese senza che ciò crei fratture espressive, si apre sul liquido fluire melodioso di “Vallées closes” prima di infilarsi nel tempo dispari di “Lament”, sospinta da una maestosa parte di contrabbasso, e di perdersi nell’umbratile mood di una “Feu pale” che risolve in uno shuffle western l’improbabile incontro fra Morphine, Talk Talk periodo “Laughing stock” e derive post-tutto targate Ulan Bator. Fra echi dei Louise Attaque meno allineati e suggestioni del più inafferrabile e mistico Matt Howden, vanno in scena otto tracce trasognate venate di straziante tristesse d’oltralpe, accompagnate dalla vocalità densa ed evocativa di Nouveau, condotte ad un passo singhiozzante su cadenze lasciate libere di avvolgersi in spire imprevedibili, rivelatrici ad ogni riascolto di preziose minuzie ben celate sotto una spessa coltre di melanconia rifinita ad arte. Dilatati e rarefatti procedono i nove minuti strumentali di “A forest of lines”, ambient e meditazione scandite da un pianoforte oscuro capace di richiamare l’asfissiante tetraggine della “All cats are grey” dei Cure, un gorgo che inghiotte anche il crescendo percussivo, minaccioso e saturo, di “The beguiled” (fra i Koop ed i Black Heart Procession, per intenderci) o la sintetica cadenza ossessiva della stralunata “Following strangers”, pulsare dimesso che richiama indifferentemente l’ultimo Cohen, i Massive Attack di “Protection”, i For Carnation di Brian McMahan o il secondo album – quello più levigato e crepuscolare - dei Tarmac di Gaetan Roussel e Arnaud Samuel. Il finale è affidato all’elaborato intrico jazzato di “Des nuits”, chiusa da una corale quasi chiesastica, ed al synth in minore di una “The passing” che, fra rimbombi catacombali e melodia decadente, suggella in una marcia agonizzante memore dei Joy Division un album di straordinaria, traboccante, introversa intensità. (Manuel Maverna)