VOINA  "Alcol, schifo e nostalgia"
   (2017 )

Tenete subito presente una cosa: se siete alla ricerca di un disco perfettino, con tanto di ipotetico Photoshop musicale per renderlo tale, sappiate che ai Voina non gliene può fregar di meno, poiché i quattro abruzzesi sono l’antitesi del carino, del pulitino e del ruffianino. Mica lo fanno apposta, è una loro naturale tendenza a ridiscutere le tematiche senza connotati di precisione e ritocchi d’abbellimento. Con solo tre parole (di certo non: sole, cuore, amore…) ti fan capire, in questi solchi, che si fa ricorso spesso ad “Alcol, schifo e nostalgia”. E sono anche tre i motivi per non lasciarseli scappare: sono distorti quanto basta, orgogliosamente emaciati e palesemente talentuosi. Questo secondo album è un frullatore di sfoghi sul disagio e le incertezze che ci tormentano e su quei sentimenti che non sono né carne né pesce, come un magone sullo stomaco che non è mestizia ma neanche allegria. Forse nostalgia, ma vai a capirlo… E allora rendiamoci conto che si può “Morire 100 volte” ma non bastano nemmeno altrettante rinascite, in quanto siamo incendiari in via d’estinzione. Occhio a non prenderli in parola! Se dicono che “Il Jazz” fa schifo, stai pur sicuro che lo ascoltano nelle loro bisbocce ristoratrici, e se spostano “Il futuro alle spalle” con sarcasmo, ci pensano (eccome!) al domani che verrà. I Voina ti possono scuotere con l’attacco emo-core di “Welfare”, come ti possono lasciare con un palmo di naso nello sfiorare un mantra paranoico in “La provincia”. Non vigono regole precise: tutto in presa diretta e vomiti testuali per direttissima, con il gusto sbilenco di sentir sbattere le “Ossa” per frantumare un locale: una ballata, questa, dalla bellezza illegale per l’amena penetrazione emotiva. “Alcol, schifo e nostalgia” è come la dea Opi, abbondante di trovate dissennate: chitarre secche o incendiarie, fettucce di bassoni riflessivi, drumming virili e frenetici, tregue rare ma di grande effetto. Il rock dei Voina è cotto e mangiato, senza artifizi, velatamente perverso e riccamente spiazzante, che ti folgora senza appello. E poi l’indovinatissima scelta del singolo “Io non ho quel non so che” ti costringe all’immediata operazione al cervello, per rimuovere l’appiccicoso sanguisuga del titolo dalla sinapsi. Le tentano tutte pur di stregare i fastidi dell’anima che strilla, che si contorce, che cigola per meccanismi usurati ed usuranti. Non sappiamo se, almeno in parte, ci son riusciti. Ho la sensazione che l’unica consapevolezza appagante per loro sia quella di dare il peggio quando si fa del proprio meglio. Oppure, hanno semplicemente rivendicato il sacrosanto diritto a dichiararsi felici e perdenti. La lezione è servita… (Max Casali)