NEW DAY  "Sunrise"
   (2017 )

Io amo Amparo Llanos. Non ne ho mai fatto mistero. Mia moglie lo sa, amen. Tra l’altro, mi ero già dichiarato in questi stessi termini scrivendo due righe su “Complications”, canto del cigno della bella favola madrilena chiamata Dover, album-epitaffio che sancì due anni orsono l’atto definitivo di una band in grado di spacciare rock in una Spagna esportata spesso – che errore! – come culla e fucina di tormentoni latin da spiaggia. Il giocattolo mezzo rotto da un po’, almeno dalla svolta poppettara del comunque buono “Follow The City Lights”, si è sfasciato dopo la follia commerciale ed artistica che nel 2010 partorì un disco senza senso (“I Ka Kené”, etno-dance al posto delle chitarre elettriche spaccaossa), visto e vissuto dagli aficionados come la prova ultima di un tradimento mai perdonato. “Complications” fu il tentativo, timido, splendido, un sussulto di orgoglio a Canossa, di riprendere in mano il bandolo della matassa quando nemmeno c’era più la matassa. Dell’abrasivo, feroce “Devil Came To Me”, breakthrough – si dice così, no? - del 1997, una botta da un milioncino di copie vendute, resta l’imperitura memoria. A fine 2016 la sorellina minore Cristina, demonietto pacificato, stufa, anche un po’ afona oramai, dice basta, la voce è andata, la voglia pure. Amparo, che sulle spalle insieme alla chitarra porta il fardello di cinquantuno primavere, non molla. Tiene stretto il bassista Samuel Titos, arruola Jota Armijos alla batteria e si rimette in pista. Chiama il progetto New Day – e come, sennò? – e intitola il disco “Sunrise”, un uccellino e fiori in copertina. Tutto nuovo, è un’altra alba che in pochi riconosceranno come tale, ma ad Amparo non importa. Ah, sì: resta il problemino del cantante. Cristina è fuori, Amparo prende il microfono, non lo aveva fatto mai. E lascia da parte un po’ di quel truce rock squadrato che rese memorabili almeno tre album dei Dover. Un po’, non tutto, perché non ci si può staccare così da quello che sei. “Sunrise” è questo: tredici pezzi per quaranta minuti scarsi, in libertà. Ci mette di tutto, Amparo, che se ne infischia bellamente dei suoi difetti di pronuncia, dei Dover, di Cristina e delle vendite. Butta lì un pugno di canzoni come le vengono, tanto nei Dover era sempre lei che scriveva. Solo che adesso si può concedere il lusso di fregarsene dei tempi che corrono e dei fan inviperiti. Ci mette roba da Beach Boys 2.0 (“Say Yeah”), una sassata di puro r’n’r fuori moda (“Get away”), qualche ballata amara (“Sunrise”), perfino tentazioni spiritual (“Jupiter And The Farmer”) e slackness sbavata à la Beck (“Stay”). Sempre con gli stessi quattro accordi, sempre con quel minore assassino che vira qualsiasi pezzo verso una mestizia profonda, quella che l’ha sempre distinta. Accelera, rallenta, non esagera, e va bene così. Lo fa nell’up-tempo campestre di “Painting In The Sky”, una cosa da niente con clap-clap e partenza inattesa, capace di bacarti il cervello e non uscirne più. Lo fa nel trittico conclusivo che vale il prezzo del biglietto e ben oltre, con quel paio di accordi da George Harrison che spaccano il refrain di “In My Room”, con il college-rock slavato à la Weezer di “Rolling Down” e con le suggestioni syntetiche che conducono all’altro mondo la chiusa triste (in minore, n’est ce pas?) di “One Day”, una sassata baggy da Killers che pare la colonna sonora di “Fame”. Ma la canta Amparo, ed è perfetta così, con tutti – ma proprio tutti – i suoi difetti. Non esistessero i Cure, i Dover sarebbero il mio gruppo preferito. E di Amparo vi ho già brevemente parlato, anche se mai abbastanza. Ai posteri bla bla bla e nessuna sentenza. Ad maiora! This one goes out to the one I love. (Manuel Maverna)