ELECTRIC BIRD NOISE  "The moonflower"
   (2017 )

Arduo già soltanto addentrarsi negli oscuri meandri in cui si rifugia da quasi vent’anni Brian Lea McKenzie, chitarrista del South Carolina che dispensa ad intermittenza, celato sotto il progetto Electric Bird Noise, sprazzi della propria inafferrabile arte in pubblicazioni caratterizzate da sporadicità ed imprevedibilità. Di fatto una raccolta di brani estratti dai numerosi precedenti lavori, “The Moonflower”, pubblicato per l’eclettica Silber Records, diviene per l’occasione colonna sonora ready made per la omonima pièce teatrale scritta da Philip James Fox, già nel collettivo Wicked Gift e mente dietro l’operazione Gratispheres. Esplorazione largamente strumentale del concetto di dissonanza e della reiterazione di figure – da Schoenberg a Cage – “The Moonflower” è un cupo, frenetico ribollire di echi ed armonie contorte e capovolte, da Nono a Fennesz passando per Tim Hecker, suono avant screziato da incisi inattesi, sospese arie inquiete, dilatazioni sinistre (mirabile “Trouble At The Hayworth House”), spezzoni inconclusi ed un generale senso di straniamento che funge da trait d’union fra i quattordici episodi della raccolta. In un flusso ininterrotto di algida compostezza si susseguono il notturno elusivo, sfuggente e sepolcrale, di “Welcome To Static Beach”, con la batteria a condurre un’aria vagamente pinkfloydiana; il vortice rumoristico di “Thgie Ytnewt”, il gelido martellamento disarmonico di “Ytriht” o la repentina accelerazione à la Reznor di una inacidita “I Miss Those Hardcore Kids”. Atterrisce la cadenza orrifica di “Burned By The Sands” imprigionata fra tastiere psych ed un salmodiare distante, procede memore di un insolito ibrido tra Art Of Noise ed Interpol il basso dark di “Carnegiea Gigantea”, indugia su atmosfere space “I Come From The Earth”, con voce lontana, mascherata, storpiata e sciamanica. La chiusura di entrambe le rappresentazioni – teatro ed album - è affidata a “Peter Hook”, commiato dimesso e desolato, un synth-pop triste à la Cure che stende un tetro sudario su una musica complessa e densa, cerebrale sì, ma venata di una crepuscolare mestizia che la rende - almeno in parte - più vicina al comune sentire. (Manuel Maverna)