CARTA  "The sand collector's dream"
   (2017 )

Stralunato e indolente, visionario e bislacco, infido ed inafferrabile, “The Sand Collector’s Dream” è il quarto album – secondo con Saint Marie Records – del collettivo aperto Carta, nato a San Francisco dieci anni fa per iniziativa di Kyle Monday e Jason Perez ed oggi ampliatosi – sul modello dei Godspeed You! Black Emperor – fino ad inglobare una decina di elementi, su cui troneggiano il basso di Sacha Galvagna e la voce angelica di Odessa Chen. In una fantasmagoria allucinata e straniante che prevede lo scambio di ruoli e strumenti prende vita un flusso di musica sì concettuale, ma non priva di una sottile emotività implicita, ingannevole come un veleno somministrato goccia a goccia, una dolce trappola svenevole ed attraente: idee non lineari, un quadro sfuggente, testi dolenti che immancabilmente naufragano nel prossimo cul-de-sac. C’è sempre qualcosa di impercettibilmente ed intenzionalmente sbagliato in “The Sand Collector’s Dream”, anche in una esangue pop-song sui generis come “The Last King Of Rome”, nenia che arranca su un’esile drum-machine da Jimmy Lavalle prima che coretti e chitarre si prendano il finale; c’è una lieve anomalia, come una vena nel vetro, pure nell’opener “Arthur And Linda”, catatonia a due voci in falso crescendo, nella lounge pigra e sbilenca di “It’s Always As It Always Is” o nella dilatazione da 4AD dell’impalpabile “Ettore And Adele”. Album indefinibile come una serie di foto fuori fuoco, concezione di musica privata del piacere dell’intrattenimento, discorso accennato e lasciato a metà, disco contemporaneo senza essere avant, “The Sand Collector’s Dream” è un miraggio oltre la nebbia, una serie di indizi che non portano a nulla, malìa misteriosa che irretisce e confonde di continuo. Emblematica “Madeira”, in fondo pop-song anch’essa, ma monocorde e statica, con gli strumenti letteralmente nascosti sotto piccoli strati di disturbi, fino alla liberazione finale; ossessiva e lasciva – tra Julian Cope e Lou Reed - la cadenza di “Reasons To Be Fearful” con voce filtrata, sinistra, gutturale, ed un basso trip-hop che collassa in riverberi da My Bloody Valentine; suadente l’aria in minore à la Nick Cave di una toccante “Tarantella”, cantata con altezzoso distacco, preludio all’ennesima ossessione sintetica, squadrata e robotica inscenata in “The Manuscript”, con recitato da ultimo Scott Walker e gelida chitarra a farsi largo in un nero profondo memore dei Portishead. La title-track, strumentale bucolico, è l’anticamera della resa, che si compie nei cinque minuti di “The Contract”: arpeggio drogato, percussioni, vagiti hippie, voce atona che ripete come in un mantra “I’m never gonna fall in love again”, cedendo il proscenio ad una coda svuotata di tutto, mentre una sensazione di inquieta incompiutezza aleggia fascinosa su una musica ipnotica, sghemba e disallineata. Musica strozzata, singhiozzante, asfittica. Musica che suona incomprensibilmente celestiale, chissà perché. (Manuel Maverna)