THOT  "Fleuve"
   (2017 )

I Thot, trio belga che da oltre un decennio abita un sottobosco di spettri e tenebra, pubblicano su Weyrd Son Records con la produzione di Magnus Lindberg (Cult Of Luna) le nove tracce di “Fleuve”, frustate mortifere che narrano di una terra di confine popolata da demoni, suggestioni oscure ed incubi assortiti. Band indefinibile che lambisce a tratti (“Odra”) una versione incattivita e distorta dei primi Muse, i Thot stipano in trame spasmodicamente sovraccariche elementi mutuati da generi e sottogeneri imparentati e limitrofi. Ciò che fa di “Fleuve” un ipnotico campionario di allucinata tensione è proprio il connubio mai forzato di istanze disparate a produrre un effetto complessivo stordente e affascinante, un ordinato bailamme in cui convivono e coesistono - avviluppati tra le maglie di ondivaghe contorsioni chitarristiche - accenni free, derive goth, echi post-rock, briciole di doom addomesticato, clangori albiniani, improvvise oasi di quiete fasulla ed irreale sventrata da scariche repentine come da torride impennate di rumorismo brado (i sei minuti di “Rhone”, incipit wyattiano e sviluppo kraut). Tra gli ingredienti: virate suadenti, aperture melodiose, movimenti in crescendo e prove di stasi (i sette minuti di “Rhein”, devastante saliscendi con contrappunti di clarinetto impazzito), perfino accenni avant, disarmonie, ritmi incalzanti trafitti dal canto plumbeo di Grégoire Fray, in alcuni frangenti addirittura prossimo ad inflessioni da Robert Smith (la dissonante sassata up-tempo à la Cloud Nothings di “Vltava”), più spesso inacidito, dolente, talora al limite del collasso come nelle divagazioni à la Somnambulist di “Samara”. Quella di “Fleuve” è musica sofferente che gioca sulla creazione di strati di emotività che si sovrappongono in continua deflagrazione, tra feedback, cori sinistri (“Volga”), saturazioni urticanti ed un costante riempimento di ogni spazio disponibile. E’ il caso dei quasi otto minuti claustrofobici di “Duna”, nati da un giro di pianoforte à la These New Puritans e ficcati a forza in un cunicolo di bassi lugubri a reggere una cadenza ossessiva devastata dal massacro ordito dalle bordate distorte della chitarra e dei synth. I 13 minuti di “Bosphore” che chiudono l’album sono niente altro che un intrico di dissonanze memori degli Ulan Bator, una straziante sequenza di figure ripetute a creare un effetto mesmerizzante, una trance stralunata che ricorda i Mono mentre implode nel nulla. Monolite di granitica compattezza, “Fleuve” è lavoro estremo per complessità e corrosività, aspro compendio di nevrosi e costipata violenza, caleidoscopio di livorosa frenesia fondato su una interpretazione di traboccante, vivida intensità, spesso prossimo ad una tensione a stento sostenibile. (Manuel Maverna)