SIMPLE MINDS  "Walk between worlds"
   (2018 )

Ecco, ci sono dischi (album, 33giri, fate vobis) che si potrebbero recensire in automatico, forse - eresia! - senza nemmeno mettere su una nota musicale. D'altra parte la storia dei Simple Minds è tale per cui, nel ripetersi di pregi e difetti da un quarantennio, è difficile pensare di trovare altro. Non si metteranno a fare reggae, per dire. Non rapperanno. Non faranno mai un album tutto brutto. E nemmeno mai uno tutto bello. Alla fine è la loro storia, e forse potrebbe anche capitare, un giorno, di trovarsi Jim Kerr alla porta, furioso, urlando che questo è un pregiudizio di cui è stufo. Ok, si potrebbe anche essere d'accordo, ma poi se la realtà è questa, non è colpa di nessuno. "Walk between worlds" non sfugge alla regola, come si trattasse di un quattrocentista che continua, imperterrito, a correre i 1500. Incipit di album dignitoso, quasi buono ("Utopia", in primis), con quel classico mix tra synth e chitarre che li caratterizza dagli albori. Poi ci si perde, si eccede nei sofismi ("Barrowland star", ohibò), nei violini - nei Simple Minds? I violini? - e la voglia dello skip che si ripropone, infame, tra un brano e l'altro. E allora, cosa facciamo? Facciamo come sempre: ne prendiamo due o tre, quelle che sarebbero state nel lato A di un vinile o di una cassetta, e ce le facciamo bastare. Continuando ad amarli per quello che sono, e odiarli per quel fiato corto che hanno, diciamo, da quando si misero in testa di diventare gli U2. Quando prima, fino a "New gold dream" e parte di "Sparkle in the rain", erano stati talmente i numeri uno da far arrivare terzo il secondo. L'altroieri, però. Però, sempre meglio averli che perderli, dai. (Enrico Faggiano)