FLUXUS  "Non si sa dove mettersi"
   (2018 )

Sono passati oltre quindici anni dall’ultimo lavoro dei Fluxus, “collettivo verticistico autodisorganizzato” formatosi a Torino nel 1991, di uno stampo hardcore punk che ricorda i Dead Kennedys a cui si aggiungono influenze heavy metal e noise. Esordiscono nel 1994 con “Vita in un pacifico nuovo mondo”, a cui seguono “Non esistere” del 1996, “Pura lana vergine” del 1998 e “Fluxus” del 2002, a cui partecipano anche Roy Paci e Teho Teardo. Il nuovo disco s’intitola “Non si sa dove mettersi”, semi-citazione degli Stormy Six (“Non si sa dove stare”), autoprodotto e pubblicato grazie al crowdfunding su Musicraiser, composto da undici tracce e anticipato dal singolo “Ma ero già indietro”. Già il nome dell’album è emblematico, come dichiarato dagli stessi membri (Franz alla voce, Luca alla chitarra basso, Roberto alla batteria e Fabio alla chitarra): “Non si sa dove mettersi, c’è una mancanza di posto. È una descrizione della dimensione in cui ci troviamo tutti. È come se ti fossi alzato un attimo e ti avessero preso il posto in cui stavi prima, un po’ come il gioco delle sedie. […] In questo momento forse la situazione stessa è diventata un soggetto, nel senso che alla fine vale la pena parlare del caos che ti circonda, delle contraddizioni. Anche la mancanza di chiarezza diventa un soggetto che abbiamo scoperto può essere interessante da affrontare, può essere un argomento di cui parlare in modo convincente...”. I Fluxus in questi undici brani gettano uno sguardo disincantato e schietto sul mondo, sulle persone che lo abitano e le dinamiche che lo regolano, senza compromessi, senza fronzoli, senza perbenismi né mezzitoni: sono sinceri, disillusi, politically incorrect, incazzati con un sistema che non li riflette e rabbiosi verso chi vi si assoggetta con cieca obbedienza. Già dall’inizio, con “Nei secoli fedeli”, i Fluxus prendono posizione contro il potere e l’asservimento, fra riff e assoli di chitarre distorte: “riportano il bastone, ti leccano le mani / aspettano felici la carezza del padrone. […] File di preti di una nuova religione / che venerano un dio che distrugge la ragione. / Senza coscienza, senza dimensione / senza pensieri, senza redenzione”. In “Licenziami dal mondo” c’è invece la volontà di annullamento, di cancellazione da un contesto non più sopportabile: “Legato sulla sedia / vomito la mia bile / licenziami dal mondo / licenziami con stile”, in cui la tensione è mantenuta alta dalla linea di batteria, sempre presente e pressante. “Ma ero già indietro” è torrenziale, serrato, non lascia spazio all’esitazione o all’indecisione, travolge e sconquassa senza pietà; in “Ami gli oggetti” trova voce l’insofferenza verso coloro che non usano il criterio e il raziocinio, ma si lasciano trasportare dagli eventi: “Che cazzo vuoi non hai mai fatto niente. / Quando ci sarà la rivoluzione / tutti saliranno sul carrozzone / dicendo che ci avevano sempre creduto. / Ami gli oggetti, usi le persone / vivi in una casa disabitata da te”. “Prescrivimi qualcosa” continua l’impeto distruttivo, stavolta autoriferito (“Dammi il tuo colore, portami con te / tagliami la gola, ma portami lontano. / Dammi qualcosa, dimmi qualcosa / prescrivimi qualcosa”), in un clima che ricorda “Curami” dei CCCP, mentre si ha un cambio di ritmo, un arresto, con “La decima vittima”, più lenta e onirica, in cui invece si ha una caccia all’uomo dove l’unico modo per salvarsi è un salto nel vuoto. Si torna a sonorità tirate e pressanti con “Mi sveglio e sono stanco”; in “Gli schiavi felici” torna la rabbia e l’insubordinazione: “Gli schiavi felici esorcizzano la paura / pronti a colpire a un cenno del padrone / nessuna pietà, nessuna assoluzione. Mi avevano promesso la pace, dove cazzo è la pace? / Sono un povero coglione perché non mi piace? / Mi avevano promesso la giustizia, mi avevano promesso i soldi, mi avevano promesso la felicità. / Dovevo solo stare buono. Dovevo solo stare attento. / Dovevo ringraziare, dovevo amare il mio padrone / dovevo venerare il mio dio. Dove cazzo sono io? / Dovevo lavorare e produrre per il benessere collettivo. / Dove cazzo è il benessere collettivo?”, in uno sguardo molto lucido e attuale. “Bianca materia” mantiene costante il ritmo e la tensione; disillusa e furibonda è “Datemi il nulla”: “Datemi il vuoto che io possa riempire / datemi l’aria da respirare / datemi qualcosa che io possa odiare. / Sei solo anche perché non ti accontenti più. / Sei solo anche perché ti vuoi distinguere di più. / Sei solo anche perché non ti ritrovi più”. “Alieni per la strada” chiude l’album ed è forse il pezzo che si pone più apertamente come manifesto e dichiarazioni d’intenti, è deciso e non lascia spazio a compromessi – è anche l’unico in cui si parla in prima persona plurale, in “noi”: “Riaprite le porte / lasciateci andare / dateci tutto indietro / che indietro non vogliamo tornare. / Noi non abbiamo risposte / non cerchiamo ragioni / noi non vogliamo più bisogni, certezze e soluzioni”. Che dire quindi? I Fluxus hanno dimostrato che non hanno affatto perso la verve e lo spirito che li contraddistingueva, riescono a essere incisivi, convinti e convincenti sia nei testi che nelle sonorità: i temi vengono affrontati in modo per niente scontato né banale, c’è una riflessione lucida sul mondo attuale e una presa di coscienza che porta inevitabilmente all’insofferenza, alla nausea e alla ribellione, oltre a un tentativo di risvegliare chi invece è ancora imbrigliato nei legacci e fumi oppiacei dell’obbedienza e della fede cieca, che sia un’autorità politica o religiosa. I Fluxus hanno dimostrato che, dopo tanti anni, c’è ancora bisogno di qualcuno che dica le cose come stanno, che si incazzi e si opponga al servilismo indotto, che provochi il cambiamento di cui si necessita, hanno dimostrato che hanno ancora delle cose da dire e che non saranno piacevoli. E proprio per questo ci piacciono. (Bianca Bernazzi)