VASCO ROSSI  "Buoni o cattivi"
   (2004 )

Come uno stopper feroce, Vasco ti appioppa al primo secondo una bella botta nelle caviglie, tanto per farti capire il clima della partita. L’atmosfera dell’album è così delineata dal botto iniziale, con le chitarre elettriche e acustiche del singolo “Buoni O Cattivi” a ringhiare nelle orecchie. Giusto o sbagliato? Buono o cattivo? E chissenefrega! A lui meno che a noi. All’età che ha e dopo milioni di dischi venduti, biglietti strappati, cuori stracciati e fan scatenati, Vasco non deve dimostrare più niente a nessuno. Le canzoni di 'Buoni O Cattivi' non aggiungono nulla (o quasi) a quello che di lui conosciamo da anni. Nei testi ci sono le contraddizioni di un uomo (“Se fosse così semplice/ non sarei ridotto così”), le sue insicurezze (“Non ci riuscirò ma credo di sì”), le sue paure (“Sono talmente disperato che spero che il cielo tramonti”) e le sue sconfitte (“Se anche l’amore può finire, dai / dammi da bere”). Vasco non è ancora tranquillo, soddisfatto, felice, con la testa a posto (“Cosa possiamo noi se non finire male / cosa possiamo fare”). E sta forse qui il segreto della sua connessione con i “gggiovani” di generazioni diverse, quello che gli fa scrivere versi plausibili, composti in un linguaggio mai fuori moda. La musica, invece, è un rock ultraprodotto, pomposo, iperarrangiato, eccessivo. Non è che vorremmo un Vasco diverso (a quell’età – a tutte le età – non si cambia se non per necessità), ma ci piacerebbe ascoltare la sua voce libera dagli archi, dalle tastiere, dai pianoforti, dagli effetti elettronici e da tutti i cori. Vasco lo vorremmo prosciugato, stile 'New York' di Lou Reed, chitarra-basso-batteria senza effetti e assolo. Un rock sguaiato alla Stones/Aerosmith come “Rock’n’roll show” sarebbe ancora più efficace senza doppie voci, fiati e quant’altro viene aggiunto da arrangiatori e musicisti. (Giulio Brusati)