ALESSIO ALESSANDRA  "Animale sociale"
   (2018 )

Ascolto questo disco – che è fuori dall’ordinario - e voglio solo avere pensieri sparsi.
Voglio lasciarlo scorrere come merita, senza che finisca impaludato nelle sabbie mobili di rimandi e citazioni o in qualche tiritera ridondante sul cantautorato intelligente, eccetera.
Me lo voglio godere da spettatore e non da addetto ai lavori, non intendo cadere nella trappola di chi ai concerti passa il tempo filmando col cellulare ciò che ha davanti agli occhi: sarebbe un peccato perdersi questo piccolo gioiello d’arte varia, elegante ma spavaldo, aggraziato ma sfrontato, un prodigio di immediatezza non così popolare come di primo acchito parrebbe.
Piemontese di nascita, siciliano di adozione, avvocato penalista di professione, Alessio Alessandra è un insolito aedo trentanovenne capace di oscillare tra profondità accorata e divertita superficialità come e quando vuole, gigioneggiando in libertà assoluta, giocando al gatto col topo secondo l’estro del momento: attraente ed allettante in ogni sua divagazione pungente, salace digressione, spunto brillante, “Animale Sociale”, pubblicato per Rinoscky Records, conserva intatta in tredici tracce di vibrante vitalità un appeal irresistibile e la fremente curiosità per ciò che la prossima curva potrebbe nascondere.
Innervato da un magistrale intuito per ritmi ed intarsi armonici, intriso fino al midollo di un afflato retrò che riporta al teatro di rivista ed alle orchestrine d’antan, l’album è soprattutto una raccolta di canzoni che funzionano, un assemblaggio astuto di brani recenti e di altri risalenti agli anni successivi all’esperienza nella Piccola Orchestra Malarazza, senza che ciò causi disomogeneità alcuna.
Strabordante di parole e idee, traboccante di trucchi e finezze, “Animale Sociale” è un pastiche di raro garbo che lavora con furbizia su arrangiamenti e suoni: tanta roba, direbbero oggi. Avanti allora con questo bestiario circense di gran classe e tagliente sarcasmo: l’ironia sferzante – affatto risentita, ma cattivella – di “Ben 10 euro” col suo chorus falsamente pomposo; il divertissement dell’opener “L’albero Non C’è”, un trompe-l’oeil celato dietro ad un valzer musette che mi ricorda il magnifico Bénabar; il bizzarro esorcizzare la morte nello sketch agrodolce di “Signor Caronte” (finalista al Premio Bindi nel 2013); la toccante amarezza de “Il Mio Amico Pazzo”, o la desolata chiusa dimessa de “La Giustizia Dei Re”. Tutti episodi che caracollano fra serio e faceto, con uno sguardo di mesto fatalismo su un microcosmo storto e sbagliato: la boutade è sempre dietro l’angolo, comico e tragico a braccetto, come da inveterata tradizione: “Vivo di la (là)” è un buffo calembour nobilitato dalla voce di Valeria Graziani; “Il Pavone” snocciola un’evidente metafora agrodolce su una bossanova che ricorda “La Paranza” di Silvestri; “La Marcia Della Mela Marcia”, “La Canzone Senza Senso” e la scenetta grottesca di “Tino Vitalino” sono altrettante dimostrazioni di una creatività che non necessita di forzature o ammiccamenti vari a chissà quali platee.
Si potrebbe continuare all’infinito, decantando un talento maturo, magari tardivo, certo refrattario alle lusinghe del mercato, padrone assoluto di un linguaggio al contempo nuovo ed antico: un talento in purezza, forse per pochi, ma impossibile da ignorare. (Manuel Maverna)