SIMONA NORATO  "Orde di brave figlie"
   (2018 )

Come in un disco di Cesare Basile, Tom Waits o Giovanni Succi, tutto sembra girare storto in “Orde Di Brave Figlie”, nuova fatica di Simona Norato, artista palermitana che da una ventina d’anni raccoglie consensi e conferme sia come solista sia in una nutrita serie di progetti corali (Dimartino, I Caminanti).
Pubblicato per la sempre stimolante Ala Bianca, “Orde Di Brave Figlie” segue di tre anni il lodato e decorato “La Fine Del Mondo” che la vide esordire in proprio con la produzione dello stesso Cesare Basile.
Lavoro impervio, disallineato e scomodo, sghembo e sbilenco come il passo claudicante di quel blues artefatto che alcune tracce sembrano suggerire, irradia ostinato un alone di potente visionarietà che accoppia ritornelli obliqui e strutture scarnificate. Sottrae anziché aggiungere, ma trova in questo precario equilibrio infido, in questo togliere ogni riferimento o appiglio, un fascino carnale, morboso, a tratti quasi inspiegabile.
Apre in bilico fra cantautorato ed avanguardia il retrofuturismo in salsa orwelliana di “Un Solo Grande Partito”, violino dolente a contrappuntare un testo teso e drammatico, preludio all’atmosfera virata in noir di “Chirurgia Del Tavolo” ed alla successiva “Scegli Me Tra I Bisonti”, viscerale e stralunata, perfino brutale nella sua ancestrale rappresentazione della parte-per-il-tutto, una piccola umanità senza tempo sfigurata ed eternamente perpetuata.
L’impianto è free, un connubio mai prevedibile di elementi in divenire, un pastiche multilivello che impasta suoni e idee in una insolita mistura di fantasy e iperrealismo: un disco incompromissorio destinato a dividere, figlio di un espressionismo sufficientemente spinto da risuonare crudo e allucinato nei contenuti, slabbrato e minimale nella veste musicale. “Avremo Una Casa Nella Prateria” – ospite Basile - è un rudimentale blues scordato che fa il paio con l’aria bislacca e ondivaga di “Ci Chiederanno”, sussurro contorto che collassa in un singhiozzare malaticcio e sofferente.
Schegge di jazz addomesticato, un turbinio di immagini ora fuori fuoco ora quasi urtanti nel loro vivido nitore, un bestiario in apparenza delirante: “Orde Di Brave Figlie” è una sequenza di brevi indovinelli, non necessariamente con una soluzione, album complesso che rovista tra le pieghe di un istrionismo totalizzante rinunciando a lasciarsi incasellare in una dimensione precisa.
Se la title-track, amara e fatalista, lievita sorniona e irrequieta su un tappeto di percussioni mediorientali mentre prende a calci con algida nonchalance una certa idea di famiglia, il dolente strumentale “Palastramu” procede tra suggestioni neoclassiche e musica da film, prologo alla spiazzante chiusura di “Questo Universo Spione”, che inizia con un pianoforte à la Norah Jones, ricama un’aria à la Lili Marlene, imbastisce un testo vagamente omicida. Con una voce di bimba (Marta Candullo) sinistramente premonitrice, un call-and-response in un’alterazione temporale a confondere le acque fino all’ultimo istante, come in una favola senza lieto fine.
Intrigante opera di rara intensità, ostica e ribelle, mai lineare. (Manuel Maverna)