USTMAMO'  "Il giardino che non vedi"
   (2018 )

Gli Üstmamò tornano a sorprenderci, non tanto per una novità musicale in sé, ma per aver aggiunto un'altra tappa diversa al loro percorso già variopinto, che dà ulteriore prova di come la band reggiana non si stanchi mai di sperimentare. Dopo l’esordio alt rock del ’91, l’immersione personalizzata nel trip hop dal ’95, sprazzi di reggae e nel ritorno nel 2014 ad un sound rock in inglese, con l’LP “il giardino che non vedi” il chitarrista Luca Alfonso Rossi porta il suo trio ad una dimensione intima e contemplativa del proprio ambiente circostante. Tempi lenti, chitarra elettrica pulita colma di riverbero, chitarra acustica, voce di Luca tranquilla e sospirata caratterizzano le nuove canzoni, che prendono ispirazione dal sud di Reggio Emilia. Si può perfino respirare l’odore del legno, e il fresco dei boschi. Sono i luoghi d’infanzia di Luca, ai quali è grato e devoto, e si sente in “Siamo di qua”: “Questo silenzio che riempie lo spazio, riempie lo spazio ma ti vuota la mente, e il vento che toglie il respiro, respinge le parole che hai nella gola. Di dove siete? Siamo di qua, per nostra fortuna siamo di qua. Siamo di un posto che abbraccia, che non ammazza”. Lo sguardo e l’affetto assumono un carattere mistico in “Luce mai riposa”: “Vai tu, io resto qua fino a che Dio tornerà”. Elettronica minimale e non invadente compare qua e là, in “La luna alla TV” e “È come una giostra”, dove accompagna la melodia dolce. Nonostante il legame con la terra ancora attuale, leggiamo un titolo che riporta una tipica frase nostalgica: “Una volta era meglio”. Sopra una batteria elettronica delicata vengono incisi i ricordi: “La strada libera, il cielo blu, la linea retta, l'orizzonte eri tu”. Il rullante acustico, battuto con quella particolare intenzione trip hop, ritorna in “E sai cosa c’è”, in “Ali vive libero” e in “Sono andato nel campo”. In questi brani si percepisce maggiormente il calore umano dei musicisti. Specialmente nell’ultimo di questi tre, dove sembra di vederlo, l’ambiente verde del racconto: “Risalendo, ora so quanto fiato mi manca, quanto cuore non ho. Ho guardato nel pozzo e ora so, ho pescato nel pozzo quello che berrò. Io sarò sempre qua, sarò l'albero che si brucerà. Sempre qua io sarò, che quest'albero si bruci o no”. Ancora alberi in “Vieni, avvicinati”: “Questo è il giardino, lo vedi, di querce, di noci fiorite. Foglie marcite ai tuoi piedi, aceri senza la vite. Malve sdraiate, seccate dal sole, brucia l'estate, le spine dimore. Faggi là in alto che sfregano al vento, come colonne grigie di un tempio”. Al centro, il suggestivo brano ospita una viola vibrante. Come da titolo, “Il buio sospeso” ci mantiene in una sospensione sonora, con meditazione su visioni oniriche inquiete: “E sogno che tornavo a scuola, e in tasca avevo una pistola, e maledico le lenzuola e il sangue che dal sogno cola, e il tempo guarisce ogni cosa, ma il tempo distrugge ogni cosa”. La natura fa superare la sofferenza: “Il freddo in petto è come vetro, ma intanto il dolore è più in là, s'è alzato col sole, e ora va”. Per il pezzo di chiusura “Piccola nave”, ci si concede un moderato ritmo blues, un incedere sicuro di batteria e basso, un gentile suono d’hammond vagamente anni ’60, e un assolo di chitarra. Ennesimo esempio di duttilità, “Il giardino che non vedi” rimodella gli Üstmamò in una forma familiare e discreta, da vivere sottovoce, e che regala un po’ di mal d’Emilia (anziché mal d’Africa) anche a chi non l’ha mai vista. (Gilberto Ongaro)