FINISTER  "Please, take your time"
   (2018 )

Strano disco, questo. Ha un suo peculiare fascino, morbido ma ingannevole. Sottrae punti di riferimento, concede sporadici appigli, confonde. Si fa piacere.
Su etichetta Red Cat Records, “Please, Take Your Time”, ritorno dei fiorentini Finister a tre anni dal decantato “Suburbs Of Mind”, è un album complesso che vaga in più direzioni, sinuoso, perfido, strisciante. Lo fa sporcandosi da sé, per non assomigliare a nulla o per assumere di volta in volta le sembianze che predilige. E’ ambiguo, ben confezionato, contemporaneo nelle dinamiche, eppure legato a qualcosa di antico. Sincero e concitato, oppure freddo e ragionato, è tutto ed il suo contrario: sibillino, contorto ma paradossalmente immediato.
Mai aspro, si insinua con furbizia: non esplode, rimane compresso, contenuto, misurato. Trova in piccoli trucchi ed in un sapiente dosaggio dei suoni il modo più efficace per iniettare qualcosa di sottilmente venefico mentre dispensa una modern dance oscillante fra la sensualità à la Maroon 5 dell’opener “Lighter” ed il caos nevrotico di una “Pan Tribal” irrequieta ed incalzante.
In un insolito rebus che offre suggerimenti in ordine sparso, sfilano episodi più allineati - il languido romanticismo di “I Know That I Can Be With You”, slow impreziosito dal sax di Orlando Cialli, la suadente aria à la Spandau Ballet (è un complimento) di “Vapor”, la psichedelia leggera di “My Deepest Faces” con inserti prossimi al prog – accanto ad altri di maggiore complessità, quelli che forse rappresentano al meglio l’arte ambivalente della band.
“A Free Bug” procede stralunata con un basso che riecheggia Mick Karn, cresce infida, si incunea in una coda à la Radiohead; “I Can See You” vaga allucinata con piccole note di piano ed un sax teso a renderla surrealmente spettrale, colta ed obliqua alla maniera dei These New Puritans; la cupa ossessività di “Skyscrapers” chiude su una cadenza sintetica che richiama gli ultimi Girls In Hawaii, ma visti da una prospettiva fosca, nonostante il chorus in apparenza accomodante: la ripetizione insistita che ingoia il finale lievita sul pathos creato dall’antifona tra un sussurro ed il ritornello in falsetto scandito come in un mantra, fino alla dissoluzione improvvisa.
Sarebbe bello se i quattro decidessero di sviluppare lungo queste direttrici un linguaggio distintivo, forzando ancora di più certe intuizioni davvero pregevoli. Hanno classe da vendere ed enormi margini per sperimentare. (Manuel Maverna)