MARIO ALESSANDRO CAMELLINI  "Un pianeta su nove"
   (2018 )

Per niente facili, uomini sempre poco allineati: i migliori, a volte. Affascinanti, almeno.
Mentre ascoltavo “Un pianeta su nove”, esordio su Private Stanze/Audioglobe del poeta e scrittore emiliano Mario Alessandro Camellini, non ho potuto fare a meno di pensare a molte cose, compreso l’editoriale di Rossano Lo Mele su Rumore di novembre, zeppo di riflessioni che in molti facciamo da sempre, ma qui sintetizzate alla perfezione: ”Fate questo gioco: provate a togliere la voce dalla musica di quasi tutte le hit che passano in radio oggi. Vi sembreranno tutte uguali, tali da non riconoscere gli autori. Tutti questi prodotti funzionano. Perché sono tutti uguali, e non guardano altro che sé stessi, in un continuo gioco di emulazione“.
Mentre con gioia nera ascoltavo “Un pianeta su nove” ho pensato ad una sterminata serie di cantanti anonimi – uomini&donne senza distinzione – e di brutta musica inutile, lo gran morbo che tutti ci piglia. Canzoni senza nulla da dire infarcite di parole vuote che non sanno superare una densa cortina di trita ovvietà.
Riassaporando per l’ennesima volta “Un pianeta su nove” godevo del suo essere così fortemente, fieramente disallineato; esultavo all’evidenza del suo palese disinteresse nei confronti dell’andazzo generale; mi inebriavo della sua espressività calcata, forzata, quasi attoriale. Del suo modo sbilenco di proporre l’improponibile, negando ogni conforto, rifuggendo l’intrattenimento. E dei suoi testi, che trattano di morte, sofferenza, malattia, sporcizia e miserie del genere umano.
Ho pensato ad Alessio Bonomo che a Sanremo 2000 cantava “La Croce”, due minuti e mezzo tra i più memorabili ed avant passati dall’Ariston negli ultimi vent’anni: ecco, quello di Mario Alessandro Camellini è uno spoken-word analogo, sguaiato e scomposto, schifato in certi suoi accenti, talora incline a concedersi brandelli di canto, ma sempre storto e sbagliato, qualcosa tra Max Collini e Giorgio Canali, Giovanni Lindo Ferretti e Federico Fiumani, un tagliente salmodiare espressionista grondante disillusione su un disco che decreta il trionfo della sconfitta tout court.
Monumento all’ineluttabilità del destino, compendio di vivido iperrealismo dominato dal fastidio, “Un pianeta su nove” inanella otto musiche che sostengono e demarcano – eppure allettano - il pessimismo leopardiano steso entro gli angusti limiti di un vivere senza speranza né redenzione.
Lo fa aiutandosi con stralci di blues (“Macellai”), con ballate in quattro quarti in minore (“Veglio su di voi”, intro luciferina e dichiarazione programmatica con ritornello à la Patti Smith) percorse insistentemente da modulazioni di feedback a screziarne e sottolinearne i passaggi più dolenti, con il suo credo di esistenzialismo introverso: succede ne “Le parole”, crescendo teso e amaro con un chorus ricamato dal pianoforte che sullo sfondo disegna una melodia d’antan mentre la chitarra tesse trame inquiete. O nell’accelerazione improvvisa che a tre quarti del brano scuote “Livore” prima di lasciarla collassare in un finale disperato, gridato nel frastuono elettrico.
Amerai il finale? Non si direbbe.
Predominante è il tema del dolore, reso con una fisicità quasi percepibile: “Il treno” (la morte trasfigurata), le già citate “Macellai” e “Livore”, “La malattia” sono le pietre angolari di un album che digrada ben oltre il noir. Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. Ne “La malattia”, epitaffio da far tremare polsi e consapevolezza, su un giro di piano va in scena il resoconto dell’ultima ora, forse dell’ultimo minuto, in un climax vocale che lambisce l’agonia: “Abbiamo dato il nostro meglio/non è bastato/la malattia ci ha neutralizzato/chiudo gli occhi ed impreco/i tuoi lamenti risvegliano la mia coscienza/e denunziano la tua innocenza”.
E me lo vedo, questo Emanuel Carnevali del 2018, su una ribalta scricchiolante e traballante in un piccolo locale - di provincia o di Milwaukee, poco importa - mentre racconta la storia di “Alchimia”, e forse qualcuno alla terza birra lo deride senza comprenderne la grandezza.
Quello di Camellini non è canto, la sua non è una raccolta di canzoni, non è un reading, neppure un declamare con l’asciutta freddezza di Collini o la partecipata sofferenza di Clementi: è qualcos’altro, che dai pochi modelli possibili differisce per sfumature, dettagli, inezie, minuzie. Eppure è diverso. E’ un’altra forma d’arte.
E’ facile credere in un’altra vita/è difficile credere in una vita migliore”.
Sipario. (Manuel Maverna)