SELDON  "Per quale sentiero"
   (2018 )

Tre anni dopo l’esaltante esordio di “Tutto a memoria” del 2015, i Seldon tornano con un nuovo concept album, ispirato alle atmosfere fantascientifiche di Isaac Asimov, intitolato “Per quale sentiero”. Uscito per la Suburbansky Records (Red Cat), è costituito da sette brani ricchi di invenzioni ritmiche ed armoniche complesse, che accompagnano la narrazione dei testi, scritti in prosa. “Cronache della galassia” svela dai primi accordi dissonanti la capacità della band di elaborare un tessuto jazz rock, all’interno di una moderna cifra stilistica progressive. Le parole contengono diverse suggestioni surreali e riflessioni sui temi massimi: “Si è capovolta la realtà (…) uomini di altri mondi più distanti abbattono, disgregano quell'impero, e l'eternità finì. (…) Tutta questa tecnologia non può niente, niente di fronte all'oblio. Pianeti scomparsi dalle geografie, periferie galattiche. Esiste un'oscura entità, che viene da spazi incogniti”. Una melodia del basso introduce il secondo capitolo “La vita delle ombre”, e le parole mostrano disorientamento: “Ieri sarà il domani (…) l’assenza di verità può lasciarvi attoniti”. Uno stacco improvviso rende graffiante la chitarra elettrica, mentre parte un assolo acido di synth. Il bassista è inarrivabile, è davvero virtuoso e non manca di farsi notare in tutti i brani, anche nella titltetrack “Per quale sentiero”, sopra una parte poliritmica. Anche qui la musica sembra dar retta al testo: “Dai ascolto alla follia, lei ti ascolterà”. Tra i vari accenti spostati, la dinamica è media e non cresce tantissimo, sembra che non si voglia trovare una direzione dove intensificare il sound. Questo perché le parole raccontano l’indecisione di quale sentiero imboccare. “Segui l’atavico istinto, il tuo es primordiale, da quel mondo passato una reminescenza. Dalla conquista del fuoco all’oblio della Terra, il terrore della morte, di raggiungere quel posto impossibile senza un rimpianto”. Con “Viaggio nell’ignoto” i toni si alzano, la paura si fa musica, eseguendo un inciso basando su un accordo diminuito. La struttura si fa piacevolmente sfuggevole, con questo alternarsi di 6/8 a 5/8. Il racconto si fa cupo e rassegnato nei confronti di questo mondo: “Mai e poi mai cambierà la realtà con tutti i suoi poveri (...) in un mondo dove non succedono che cose malvagie, in una biosfera evoluta ma non da noi voluta (…) su quale pianeta porre basi per una vita nuova?”. Su queste riflessioni mondiali, il pensiero va subito al Banco Del Mutuo Soccorso. E poi la fine è caratterizzata da una parte solista del nostro eroe al basso, che aggiunge il wah wah al suono. Dalla concretezza amara della Terra si passa al metafisico, con “Corpo e anima”. Dove, tra corpose parti in 7/8 e sequenze avvincenti di accordi, l’arrangiamento è riscaldato dal suono d’hammond. “Succede in me qualcosa che neanche comprendo. Avviene così, è così destabilizzato il mondo, questo umano mondo, una chimera soltanto ipotetica. C'è un esperimento, una serie infinita di sbagli indelebili”. Un assolo di synth bellissimo fa da stacco tra le parti narrative. Poi il basso tesse un riff agitato e si affronta il passaggio dalla vita al misterioso aldilà: “La materia che mi ha contenuto mi abbandona. Sento di non stare, sento di non stare, è solo un sogno o sono ancora vivo?”. Nella parte più soft arrivano domande esistenziali: “Che nome saprò dare alle cose? Che cosa esattamente avverrà? E sotto quale forma attraente appare lo spirito?”. Queste domande si alternano a enigmi più occulti: “Essere in mano a esseri come delle pedine che scelgono di essere senza anima”. Un ruvido riff di chitarra e tastiere spaziali fanno partire “Solaria (un’altra dimensione)”, dove continua l’epifania visionaria: “Siamo spesso astratti dalla realtà, e delle bolle sferiche, sfere come mondi agli antipodi che non si incontreranno mai”. Queste sfere ricordano, per affetto, le sfere bianche presenti in Felona, uno dei due pianeti de Le Orme (“Felona e Sorona”). Ma la visione dei Seldon continua: “Salgono in superficie dagli abissi, preistorici relitti di una civiltà”. Il batterista qui gioca con dei controtempi degni di Christian Meyer. Mentre le tastiere firmano pesantemente l’epilogo “Deserto dell’anima”, dove la voce esplora scambi di identità e aridità: “Cercavi il deserto, ce l'hai dentro, stavi meditando sulla soluzione”. E anche qui ci sono pregiate digressioni strumentali. Marco Baroncini alla voce e alle tastiere, Francesco Bottai alle chitarre, Carlo Bonamico al basso e Marco Barsanti alla batteria, dalla città dell’arte Firenze. Questi sono i Seldon, una band virtuosa ma non virtuosistica, cioè che sa mettere la propria bravura e creatività al servizio di una narrazione profonda e significativa. (Gilberto Ongaro)