MORSO  "Lo zen e l’arte del rigetto"
   (2019 )

L’hardcore è una faccenda complicata: nella sua veste più militante, oltranzista ed autoreferenziale, veicola un messaggio di feroce antagonismo, assecondato ed amplificato da una musica viscerale, brutale, efferata. Il canto – eufemismo - è spesso un grido dritto e frontale, sparato in faccia come aria compressa, direbbe Contessa. Roba antisociale, per aficionados.
Bene: questo bel pistolotto introduttivo per decantare le lodi di una band nata tra Milano e Varese, formata da Davide, Guido, Matteo e Silvano. Si chiamano Morso, e già il nome è un biglietto da visita. Pubblicano il loro esordio – che si intitola “Lo zen e l’arte del rigetto”, e mi piace fin da qui - per Dischi Bervisti e Cave Canem, e pure questo è un indizio non da poco.
Affatto trascurabile è anche il loro modo di approcciarsi alla materia: qui abbiamo sì ventiquattro minuti di furia cieca memori di tutto l’hardcore possibile ed immaginabile, ma personalizzati da un taglio che a tratti rende le undici tracce addirittura spendibili for the masses. Cioè: si fa per dire, perché il martellamento assassino mai e poi mai flette o desiste. Minaccioso e virulento nel suo screamo forsennato, mitraglia ad occhi bendati seminando schegge impazzite. E’ un assalto a testa alta fatto di brani concisi, compressi e affilati come si conviene, ma stemperato da inattese aperture – ritmiche, melodiche, testuali – che lo rendono ascoltabile, sebbene indefessamente micidiale.
Nel brodo primordiale di cotanta veemenza l’eco di Pierpaolo Capovilla – primi One Dimensional Man vs. primi Il Teatro degli Orrori – è dominante, più in certe inflessioni maligne che nella foga belluina che Guido dispensa mentre maciulla il tempo a scatti di “Glamour suicide”, la tirata inacidita de “Il fine giustifica i mezzi” (bulldozer placato da un break edulcorato, subito ringoiato nel gorgo mortifero del suo rancoroso proclama), o l’impennata furiosa e amara dell’autobiografica “Sognavo di essere Bukowski” in chiusura.
Accanto a sassate omicide nella migliore tradizione (“Non si muore ogni dicembre”, “Nessuno e centomila”, “Cmc”) vanno in scena declinazioni del verbo ammorbidite, sia pure solo in alcuni dettagli. Siamo quasi al cospetto di una versione incattivita dei Jesus Lizard, privati della componente maniacale di David Yow: tanto basta a farne un ibrido che propone di lasciarsi ascoltare e perfino godere come fosse un disco normale, benché non lo sia affatto e rimanga album estremo.
Sia l’incipit di “Liberaci dal male”, con il plumbeo inciso sei tu/che nella merda dici amen, sia i tre minuti di “Pieno di istanti”, sia la sventagliata di “Sempre meglio di niente” sono muri di frastuono bucati da altrettanti ritornelli che offrono appigli anche ai non adepti del culto. Fino al pezzo-limite, l’anello mancante: “Incline”, due minuti e quarantadue secondi che meriterebbero di passare in radio, poi chi sopravvive sopravvive, beninteso. Ma vuoi mettere che goduria?
Ciò non significa che porterei mia moglie a vedere i Morso anziché Michael Bublé, perché probabilmente avrebbe un malore: meglio che ci vada da solo, almeno la prima volta.
Ecco, me li prefiguro così: su un palco piccolo, stretto, claustrofobico, possibilmente col pubblico a un metro nell’aria soffocante satura di elettricità, sudore e rabbia. Vi saprò dire. (Manuel Maverna)