CASTAWAYS ROAMING  "Løne star"
   (2019 )

Mentre trascorre la vita all’ombra confortante delle prossime anelate uscite discografiche, qualcosa mi folgora sulla via di Morbegno, provincia di Sondrio, dodicimila anime in bassa Valtellina. Unpredictable, Watson, ma vero. In barba alle eminenze grigie ed alla next-big-thing del quartierino, eccovi servito un trio di quasi-debuttanti fotografati - a tre anni da “The middle end EP” – all’esordio lungo, sontuosamente (auto)prodotto, umile, ispirato, confezionato con cura maniacale ed assoluta dedizione all’amalgama di suoni e dinamiche che lo scuotono di continuo.

Per le cronache, alle quali mi pregio di consegnarli, i tre sono Alessandro Iemoli (voce e basso), Santo Bianchini (chitarra e synth) e Simone Pozzi (batteria), in arte Castaways Roaming.

Il disco – che è pazzesco, siate avvisati – si intitola “Løne Star”, nove tracce rigonfie di non so quante memorie e lezioni imparate e ripetute da primi della classe. A grandi linee, e giusto per delimitare un minimo il campo di gioco, un frenetico impasto di grunge ed emocore truccato.

“Løne Star” possiede svariate caratteristiche che me lo rendono amico: è elettrico, ha ritmo, è cantato con trasporto in un inglese che sembra vero (aspetto che non mi stancherò mai di sottolineare, specie quando capita di imbattersi in progetti nostrani conditi da una pronuncia improponibile) ed è così meravigliosamente zeppo di tonalità minori che potrebbe anche raccontarmi di come montare un box doccia e mi andrebbe bene lo stesso. Invece è un disco su smarrimento, rabbia, antagonismo e solitudine con la correzione di qualche briciola di sentimentalismo latu sensu, un po’ sbavato, un po’ inafferrabile, un po’ così. Affronta i temi più disparati, come nel futurismo pessimista di “Atomic city” o nell’atto di accusa della monumentale “Staybehind”, e lo fa con un’apparente leggerezza che lo rende amabile mentre ti ci perdi con tutto lo stupore possibile.

L’apertura è attendista, i due minuti di “Jupiter revenge” rimangono in bilico su synth e basso prima di venire ingoiati dalla bordata di “Unsolved”, primo singolo estratto, forse un pizzico calligrafico, ma tanto fragoroso ed incattivito da mantenere intatte le speranze. Bene, e adesso?

Ecco, da lì in avanti il clima muta repentinamente: dimostrato di saper fare i compiti, il trio sfoggia finalmente tutta la personalità che aspettavi e che forse temevi potesse restare imbrigliata in una elegante esibizione di maniera. Si lascia andare, crea, infila un rosario di pezzi memorabili che azzeccano temi, pathos, ritornelli. Punge, ferisce, trascina: “Same nightsky” ha un passo da Therapy?, “Closed-circuit” ricorda perfino gli Helmet di “Aftertaste”, mentre quella chitarra sfilacciata nella coda della conclusiva “At water level” è come un viaggio che finisce, o un viaggio che comincia, lo sfondo lo lascio a voi.

Non saprei dire se questo disco sia bello – ma cosa lo è in fondo? E “Løne Star” è una piccola gemma nascosta, forse destinata a rimanere tale, o forse chissà.

Merita amore incondizionato, fosse anche soltanto il mio. (Manuel Maverna)