JO BERGER MYHRE & ÓLAFUR BJORN ÓLAFSSON  "Lanzarote"
   (2019 )

Il duo norvegese islandese formato da Jo Berger Myhre e Ólafur Bjorn Ólafsson, dopo un album di debutto convincente (The Third Script, uscito nel 2017), dà alle stampe un seguito altrettanto affascinante e pieno di idee originali, che cementifica l’intesa tra due ottimi musicisti. In soli trentadue minuti, Lanzarote, appena uscito per la Hubro Records, riesce a esplorare una gamma di suoni notevole ed esaltante.

Registrato tra Reykjavik e Oslo, Lanzarote è sperimentale ed è costruito come ulteriore passo avanti rispetto alla ricchezza di suoni saturi e granulosi e dai contorni ambigui che caratterizzavano il disco di debutto, altrettanto nebuloso e attraente. I brani, composti interamente dai due, sono complessi ma riescono in qualche modo a entrare da subito nel cuore dell’ascoltatore. “Grain of Sand” sembra un lamento lontano, un treno in panne che si fa strada tra la neve nel tentativo di raggiungere la stazione di un paesino sperduto, e i paesani, curiosi e impauriti, lo osservano mentre si avvicina lentamente. Il piano, l’elettronica e le percussioni sono dolci e incalzanti. Lanzarote è arrivato anche per necessità: lo shock dovuto alla morte improvvisa di Jóhann Jóhannsson, col quale Ólafsson aveva lavorato, ha convinto i due a trovarsi per iniziare a produrre nuovo materiale. A Jóhannsson è dedicata “Grain of Sand”, e un po’ tutto l’album sembra fare i conti con un’assenza pesante, sembra confrontarsi con qualcosa che non può tornare. Una simile tristezza, dove gli strumenti a fiato sembrano celebrare un funerale di stato e piangere insieme ai presenti, caratterizza “Atomised / All We Got”, riflessione sul (non) senso della vita e sulla fragilità umana.

Solenne e tortuosa è “Both Worlds”, che manda segnali di fumo da un’isola sperduta in mezzo all’oceano. Entrambi i mondi, come dice il titolo, presentano contraddizioni. Società e assenza di società, impossibilità a comunicare con qualcuno e continue, maniacali interazioni. Lanzarote è anche il nome di un’isola che dà il titolo a un racconto di Michel Houellebecq, amato da entrambi gli artisti e figura di riferimento per loro nella contemporaneità. Una soluzione, dunque, al dilemma tra mondi – e filosofie – opposti non c’è. “Mimophant” sembra ribadire la cosa, producendo domande e non dando risposte. “Current” e “Conjure Up the Past”, condite di frenetiche accensioni e momenti di stallo, riportano al centro del discorso la fragilità umana e l’impossibilità per ciascuno di noi di trovare una pace interiore. E, tuttavia, la chiusura con una ripresa di “Grain of Sand”, dedicata a Jóhannsson, pare aprire un poco di speranza. Tra dubbi e timori, ciò che sicuramente resta è quest’ottimo disco. (Samuele Conficoni)