THE STYLE COUNCIL  "Cafè bleu"
   (1984 )

“Breve compendio in 13 lezioni di generi musicali prevalentemente di origine nera, curato e suonato da musicisti britannici, rigorosamente bianchi”. E’ l’etichetta che metterei a questo disco, coloratissima insalata russa di suoni, in cui la maionese sono i due Style Council (Paul Weller e Mick Talbot) e i loro collaboratori, che messi insieme formano una vera e propria orchestra jazz. Che il jazz sia stato il rifugio preferito per chi era passato attraverso la distruttiva esperienza punk è comprensibile: non c’è genere migliore per ricostruirsi una credibilità come musicisti, dopo aver cercato di mettere insieme accozzaglie di suoni slegati e distorti, ottenendo in genere solo un gran casino. Così si spiega l’improvvisa riscoperta della più nobile musica nera all’inizio degli anni ’80 da parte di svariati gruppi e gruppettini, specialmente inglesi. Spesso e volentieri tecnicamente impeccabili, sfornavano in genere un paio di dischi di buon livello, anche se magari un po’ accademici, e al terzo regolarmente crollavano per mancanza di idee. Anche gli Style Council, tra i migliori rappresentanti di questa ondata, non sfuggirono a questa ferrea regola, e infatti dopo “Cafè Bleu” e il quasi gemello “Our Favourite Shop” se ne sono quasi perse le tracce. “Cafè Bleu” si può dividere in due parti, che corrispondono alle rispettive facciate del vinile: una divisione simile a quella in “night side” e “day side” del quasi contemporaneo “Night And Day” di Joe Jackson. Ciò si deve all’originario progetto iniziale, che prevedeva un doppio album, progetto poi saggiamente abbandonato perché troppo dispersivo. La prima parte è quella più notturna e intimista, più propriamente jazz, e per quanto mi riguarda anche la più riuscita, anche se il successone “You’re The Best Thing” si trova nella seconda. Dal turbillon pianistico che apre il disco (“Mick’s Blessings”) al sereno jazz strumentale che di inquietante ha solo il titolo (“Dropping Bombs On The Whitehouse”) l’atmosfera che si respira è deliziosamente rétro, per certi versi accostabile a certi album del nostro Paolo Conte. Spicca per la sua melodia l’intensa e sofferta “My Ever Changing Moods”, per pianoforte e voce, ma il resto è più o meno jazz, in particolare in forma di languide ballads come “Cafè Bleu”, con i suoi splendidi assoli da manuale della chitarra, o come “The Paris Match”, con la personalissima voce, quasi un po’ scocciata, di Tracey Thorn, presa in prestito dagli Everything But The Girl, anche loro esponenti del rinascimento jazz dell’epoca. Nella seconda parte Paul Weller sposta la sua attenzione sull’altra faccia della musica nera, quella più ritmica, iniziando da “A Gospel”, che si potrebbe chiamare benissimo “A Rap” e insiste con l’ossessivo soul-funky “Strength Of Your Nature” (il cui ritornello viene ripetuto circa 70 volte). Le raffinate percussioni latine e l’azzeccatissimo tema di “You’re The Best Thing” spezzano opportunamente la tensione, riportandola a livelli più umani. E a questi livelli rimane: i successivi brani sono brillanti ma non frenetici, fino a “Council Meetin’” con l’organo Hammond che espone un semplice tema con qualche elegante variazione. Probabilmente nessuno ascoltando questo disco verrà folgorato o griderà al miracolo: è una specie di surrogato del jazz, molto piacevole e fatto per essere ascoltato senza troppe pretese, con il tipico atteggiamento edonistico che dicono fosse tipico degli anni ’80. (Luca "Grasshopper" Lapini)