THE CURE  "Paris"
   (1993 )

È doveroso anticipare che “Paris” rappresenta il migliore live dei Cure, almeno per ciò che concerne le registrazioni ufficiali (un discorso a parte merita la discografia bootleg, da trattare in un capitolo a se' stante). L’anno, il 1993, è il medesimo di “Show” (pochi mesi dopo la performance americana) ed il luogo è lo Zenit, celebre arena della capitale francese. La copertina, tuttavia, non è una delle più significative prodotte dalla band. Un primissimo piano di un microfono e, come ovvio, un altrettanto primissimo piano di due labbra con un po’ di rossetto. Un’immagine che, comunque, dipinge perfettamente l’idea della band on stage. Band che si presenta ancora con la medesima formazione di “Show”: Robert Smith (voce e chitarre); Simon Gallup (basso); Porl Thompson (chitarre); Boris Williams (batteria) e Perry Bamonte (chitarre e tastiere), ma due dischi diametralmente diversi. Tanto il primo intende mettere in luce l’aspetto più pop del gruppo (ma non solo), quanto il secondo, invece, ne esalta l’animo più dark. La stessa scelta della scaletta intende privilegiare la porzione più “antica” del repertorio smithiano, nonostante “Wish”, ultimo lavoro in studio, sia ancora fresco di stampa. Così, se “Show” dava il meglio di sé proprio in apertura (con “Open”), “Paris” scava nel passato e apre inaspettatamente con “The figurehead”, tratta dall’album “Pornography”, nella quale risultano subito chiarissime le intenzioni di Smith e soci su quale sarebbe stata l’impronta scelta per il quarto live della band. Per la seconda traccia il gruppo tocca il vertice, pescando ancora da “Pornography”. “One hundred years” è interpretata al meglio; le chitarre di Robert Smith e Porl Thompson viaggiano perfettamente amalgamate e la voce del leader è carica d’intensità. A conclusione del brano Smith prolunga il lamento della sua chitarra elettrica, omaggiando Jimi Hendrix con un riff di chitarra tratto da “Foxy lady”. Arriva il momento di tre brani tratti da “Seventeen seconds”, intervallate da “Apart”, fresca esecuzione dell’ultimo lavoro in studio. “At night” e “In your house” risultano assolutamente impeccabili, e l’ascoltatore apprezza un’esecuzione degli stessi che risulta speculare rispetto alle incisioni del 1980, ma con il valore aggiunto della partecipazione generale. “Apart” tocca le corde della malinconia più profonda, rappresentando, forse, il momento più introspettivo di “Paris”. Ma è con “Play for today” che la band (e il pubblico) dà il meglio di sé; per la prima volta la versione live viene arricchita dalla totale partecipazione dei fans che, dapprima timidamente, e poi con sempre più slancio si producono nell’ormai tradizionale "o-ho, ho, ho, ho" a supporto delle tastiere, quale rito con il quale i fans aspettano la voce del padrone. Il live, a questo punto, si riveste di nuovo con tre brani del passato recente, sotto l’etichetta del romanticismo: “Lovesong”, “Catch” e “A letter to Elise” (secondo e ultimo brano tratto da “Wish”). La band, a sorpresa, recupera con “Dressing up” un pezzo assolutamente inaspettato, tratto da “The top”, e la risposta del pubblico è assolutamente entusiastica. Ancora vetta inarrivabile per la penultima traccia del disco: “Charlotte sometimes” è, oltre che una delle canzoni migliori della discografia Cure, eseguita dalla band con calore e passione, per preparare l’ascoltatore al saluto finale. Il gruppo sceglie il brano più scanzonato e si congeda, dal sempre valido pubblico francese, con “Close to me” e con un Robert Smith che rinuncia al suo inglese per un delicato 'merci'. Ok, questa volta thank you, Lo diciamo noi per te!!! (Gianmario Mattacheo)