BOA  "Bag of seeds"
   (2019 )

Sontuosamente introdotto dai sei minuti del bluesaccio southern della title-track, “Bag Of Seeds” segna l’esordio per Seahorse Recordings del musicista veneto Lorenzo Bonarini, artista poliedrico i cui contributi spaziano dal jazz all’hip-hop alle colonne sonore, più noto sin qui come versatile autore che in veste solista col moniker di Boa.

In una curata autoproduzione fedele alle atmosfere della label di Paolo Messere (con l'ausilio del coproduttore del disco, oltre che autore del mix e del mastering, ovvero Alberto Cagol aka Nevo), Boa inanella otto tracce impregnate di (ma non solo) alt-country o indie-folk, fate vobis: echi di Americana impastati di piccole derive gospel lambiscono Cave, Waits e David Eugene Edwards, totem ben rappresentati nella scarna, marziale essenzialità di un’opener che già marca il territorio e scava nel torbido di un primitivismo blues sì accattivante, ma modellato con raffinatezza e non senza garbo.

Sebbene nelle intenzioni iniziali l’intero album dovesse indossare l’abito scuro di un sentito omaggio a Leonard Cohen, le languide sfumature che colorano “Pinch of salt” definiscono visioni forse più prossime ad un Kurt Vile introverso che non al misticismo, alla crepuscolare melanconia ed alla ammaliante sensualità del canadese.

Docilmente cangiante, intriso di un fascino sottile e corredato di testi che trasudano afflizione, “Bag Of Seeds” serba svariate scappatoie al suo naturale percorso: se “New sun” si sviluppa pigramente sorniona su un rallentamento figlio dei primi Red House Painters (compresa l’outro nella quale è delizioso perdersi), con aggiunta di un prezioso lavoro chitarristico a riecheggiare le trame scintillanti di David Rawlings, contraltare alla bucolica compostezza di “On a couch” è l’incedere di una “Down by the river” che germoglia in un humus à la Creedence; il lungo reggae bislacco di “Those who” - con pregevole contrappunto della tromba di Dimitri Tormene – è avvolto in un’aura intellettuale che sa di Talking Heads, mentre il tempo balordo e zoppicante di “Blusette” sostiene e veicola una melodia che impasta con nonchalance Beatles, Strokes, Doors e Tame Impala tra velate suggestioni di psichedelia retrò.

La chiusura dimessa di “For us” è una bolla di desolato intimismo western a passo catatonico, ballabile dolente, quasi una lullabye da Elvis tra steel guitar e tromba fino al toccante crescendo conclusivo, placato nell’ultimo arpeggio come un bimbo che si addormenta tra le braccia di mamma.

Da collocare nel panorama nostrano ai livelli del progetto Blessed Child Opera o di quella meraviglia in noir che fu “Love in a dying world” di Nero Kane non più tardi di un anno fa, “Bag of seeds” è disco ispirato e ricco di felici intuizioni, centrato tentativo di declinare in un linguaggio sorprendentemente nuovo una materia ancestrale destinata all’immortalità. (Manuel Maverna)